ROMA – Pensavate che conservare contabilità e documentazione fiscale per 4 anni dopo la dichiarazione dei redditi fosse complicato ma sufficiente a scongiurare successivi problemi col fisco? Pensavate male. Se la legge stabiliva, e in teoria lo fa ancora, che gli accertamenti fiscali sono leciti e possibili per i soli quattro anni successivi alla presentazione della dichiarazione ora una sentenza della Corte Costituzionale stabilisce che non basta. Il tempo raddoppia. Da quattro ad otto anni. Per tanto tempo i contribuenti dovranno premurarsi di conservare e, in caso, esibire la documentazione fiscale denunciata per stare tranquilli. Nell’era digitale dovremo quindi conservare con premura fogli di carta per quasi un decennio, tenerli al sicuro e custodirli gelosamente.
Lo ha chiarito la Corte costituzionale con la sentenza 247 depositata il 25 luglio 2011. Sentenza che potrebbe avere conseguenze fortemente negative per contribuenti e imprese, i quali, in buona sostanza, dovranno per il futuro abituarsi a conservare documenti fiscali e contabilità per almeno otto anni dopo la presentazione della dichiarazione. È costituzionale la normativa che dispone il raddoppio dei termini per la decadenza dell’azione di accertamento in presenza di un reato tributario, anche se la constatazione della violazione penale è stata effettuata quando già i termini ordinari di accertamento erano decaduti. Compete al giudice tributario, ove richiesto dal contribuente, accertare se l’amministrazione abbia agito con imparzialità o abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale della normativa per fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.
Come spiega il Sole24Ore, la pronuncia della Consulta fa seguito all’ordinanza di remissione della Ctp di Napoli che, in estrema sintesi, dubitava dell’incostituzionalità della norma introdotta dal Dl 223/2006 che aveva raddoppiato i termini di decadenza dell’azione di accertamento ai fini delle imposte sui redditi e Iva in presenza di violazioni che comportano l’obbligo di denuncia in base all’articolo 331 del Codice di procedura penale. La incostituzionalità, secondo i giudici partenopei, emergeva in modo evidente laddove la segnalazione di reato per una violazione relativa a un determinato periodo di imposta fosse stata effettuata in una data successiva al termine di decadenza ordinario dell’accertamento per quel medesimo periodo. Ciò in quanto si sarebbero di fatto riaperti i termini, non vi sarebbe stata alcuna certezza sul loro spirare e, in concreto, si sarebbe potuto verificare che il contribuente, non conservava più i documenti fiscali di quell’esercizio. La Consulta ha invece ritenuto questo raddoppio dei termini pienamente legittimo perché, in buona sostanza, non si tratta di una «riapertura o proroga di termini scaduti» né di «reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti», ma di termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva (obbligo di denuncia penale per i reati tributari), senza che all’amministrazione sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione. È indifferente, dunque, che l’obbligo di denuncia non sia stato adempiuto entro il termine breve. Ciò che rileva, è la sola sussistenza dell’obbligo, perché essa soltanto connota, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario a cui è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento.
Da oggi in poi quindi, i contribuenti dovranno dotarsi di archivi capienti, dovranno tenerli ordinati e fare molta, moltissima attenzione a non perdere nulla in caso magari di un malaugurato trasloco.