PALERMO ā Dalla meglio gioventù alla peggio gente. O anzi, più correttamente, dalla peggio gente alla meglio gioventù. GiĆ , perchĆ© proprio dalla peggio gente cominciò la storia dāItalia, almeno quella meridionale, molto tempo prima della Meglio Gioventù raccontata da Marco Tullio Giordana. Molte infatti le ombre sulla spedizione dei Mille che il nostro Paese contribuƬ a far nascere. Opportunismo, criminalitĆ , calcolo politico e personale sarebbero il terreno su cui le camicie rosse poterono contare, senza saperlo, per il successo della loro impresa. I Mille avrebbero trionfato anche grazie allāaiuto, diretto o meno, delle parti peggiori della societĆ dellāallora Regno delle Due Sicilie: dai delinquenti non ancora divenuti mafiosi, sino ai corrotti e agli opportunisti. Tutti in aiuto dei garibaldini e tutti improvvisamente filo piemontesi e filo italiani non per passione politica o ideale unitario, ma per semplice, mero calcolo opportunistico.
La tesi riproposta sul Corriere della Sera da Paolo Mieli non ĆØ nuova e nemmeno originale, ma lāeditorialista del quotidiano milanese la correda di precise citazioni e molti particolari non certo inediti ma sicuramente ai più ignoti prendendo spunto da un saggio di Paolo Macry, āUnitĆ a Mezzogiornoā. Saggio che, se getta diverse ombre sulla parte siciliana della spedizione, mette quasi una pietra tombale sulla partecipazione napoletana allāunificazione.
Nellāideale risorgimentale e nel comprensibile incensamento che di quella fase la nostra nazione ha fatto, lāimpresa dei Mille fu un impresa eroica, fatta di ideali ed eroi che, da soli, riuscirono ad abbattere quello che era il tiranno di uno stato arretrato e corrotto portando in dote il futuro, la modernitĆ e lāItalia. Ovviamente la storia ĆØ molto più complessa di cosƬ. Lo stesso Garibaldi ĆØ una figura molto più controversa di come la si ĆØ poi dipinta, una sorta di Che Guevara ante litteram scolorito, per esigenza nazionali, a semplice paladino dellāitalianitĆ . Ma non ĆØ solo la figura di Garibaldi ad esser stata semplificata per esigenze nazionali, ma tutta la storia dellāunificazione del meridione al resto del regno sabaudo.
Finito con una fuga precipitosa e lāabbandono di Roma, la storia del Regno dāItalia non può in realtĆ vantare natali molto più nobili. Come scriveva circa giĆ 150 anni fa Massimo dāAzeglio “quando sāĆØ vinta unāarmata di 60 mila soldati, conquistando un regno di sei milioni di abitanti, colla perdita di otto uomini, si dovrebbe pensare che cāĆØ sotto qualche cosa di non ordinario”. Ed ĆØ effettivamente difficile credere che Garibaldi con i suoi mille possa aver sconfitto il più grande esercito italiano dellāepoca che solo in Sicilia era forte di circa 25 mila uomini. Qualcosa, qualcuno ha aiutato Garibaldi. E non fu, come la storia dāItalia ama raccontare, la voglia di unitĆ , il ribellarsi ad un sovrano tiranno e retrogrado a creare le condizioni socio politiche e ad armare gli uomini che lāunitĆ dāItalia aiutarono. Altre furono le pulsioni, politiche, sociali e personali che crearono il terreno su cui i mille poterono trionfalmente marciare.
Senza voler negare quanto di buono e di ideale lāimpresa dei Mille rappresentò e rappresenta tuttāora, lāindagine storica del libro di Macry mette però in evidenza gli aspetti meno edificanti della vicenda che portò al crollo del regno borbonico. Come lāappoggio che i latifondisti siciliani garantirono alle camicie rosse rifornendoli di uomini dalla non proprio specchiata onestĆ . Quegli stessi uomini che, durante i moti del ā48 avevano messo a ferro e fuoco lāisola tenendo in scacco lāesercito borbonico. Uomini che non erano, nel 1848 come nel 1860, animati da ideali rivoluzionari, ma che erano in realtĆ più simili a bande armate prive di qualsiasi controllo.
Nel 1848 ā scrive Macry – i borbonici “soccombono a un miscuglio micidiale di iniziativa politica e pressione sociale, che si esprime attraverso la guerriglia contro le truppe reali, le incursioni nelle cittĆ fedeli a Napoli, gli attacchi ai posti di polizia e il massacro dei poliziotti, il saccheggio di uffici pubblici e abitazioni private, il rapimento degli avversari politici e dei ricchi”. Queste squadre armate ā nota Mieli – presto diventano l’unica autoritĆ sul territorio. Squadre che, come ha scritto Giuseppe Giarrizzo, “sono il veicolo dellāingresso della criminalitĆ organizzata (abigeato, sequestro di persona, contrabbando) nellāarea politica, attraverso la promozione dei capobanda a patrioti”. Il tutto si ripresenta nel 1860, allorchĆ© si rivela fondamentale lāapporto di quest’area delinquenziale allāimpresa di Garibaldi.
Sono infatti queste stesse “squadracce” a preparare, inconsapevolmente, il terreno per lo sbarco di Garibaldi e i suoi. Squadracce che, oltretutto, non combattono una guerra āregolareā con i borbonici, ma organizzano quelle che oggi verrebbero definite azioni di guerriglia. Comincia quindi āmaleā la spedizione dei Mille. In Sicilia, primo approdo dei garibaldini, la loro impresa riesce grazie a squadre al servizio della vecchia aristocrazia terriera, squadre che hanno in spregio qualsiasi ideale e qualsiasi autoritĆ che non sia quella del loro signore di riferimento.
Ma la parte peggiore, quella che dĆ il titolo al pezzo di Mieli, arriverĆ con lo sbarco sul continente di Garibaldi e dei suoi. Quando i Mille prenderanno terra in Calabria, la parte continentale del Meridione ha giĆ da tempo cominciato ad implodere. Non sotto il peso però di una societĆ vogliosa di cambiamento e di nuovo, ma sotto la spinta di una societĆ , e persino di un re che, vedendo la fine del suo regno avvicinarsi sceglie di ingraziarsi il nuovo signore. Per opportunismo quindi, per calcolo. Con “un misto di realismo riluttante e avventatezza politica”, scrive Macry, “il giovane sovrano opera una svolta a tutto campo che più radicale non potrebbe essere: aderisce alla prospettiva nazionale, riporta in vigore la Costituzione del 1848 (“In armonia co’ principi italiani e nazionali”, specifica il sovrano), introduce il sistema rappresentativo, concede la libertĆ di stampa e lāamnistia per i detenuti politici”.
Da quel momento Francesco II si travestirĆ sempre più da patriota risorgimentale. Subito (dal 27 giugno) modificherĆ la bandiera del suo regno, che conserverĆ al centro lo stemma dinastico, ma diverrĆ tricolore e sarĆ issata sui pennoni della flotta e sui castelli cittadini, mentre anche le navi straniere alla rada festeggeranno lāevento sparando a salve. Nel giro di pochi giorni a Napoli non si trova più quasi nessuno che non inneggi a Cavour e a Garibaldi. Persino il conte dāAquila, zio del sovrano nel frattempo rifugiatosi a Gaeta, arriverĆ a sostenere la causa italiana.
Ma se a Palermo lāarrivo dei Mille coincise con la scomparsa di qualsiasi autoritĆ centrale e di qualsiasi ordine costituito, lasciando spazio alle squadre dellāaristocrazia, a Napoli la storia sarĆ diversa. Peggiore. Probabilmente meno dolorosa per la cittĆ che non visse saccheggi e distruzioni ma certo non più edificante visto che lāordine, caduto il potere reale, passò in mano alla camorra.
Racconta Mieli che lāex oppositore divenuto ministro dopo la svolta “italiana” del Borbone, Liborio Romano, come prima mossa convocò a casa sua i principali capi della criminalitĆ organizzata partenopea (“I più rinomati di quei bravi”, li definisce lui stesso nelle sue Memorie) e spiegò loro che era giunto il momento di “riabilitarsi dalla degradazione” facendo parte di una nuova pubblica sicurezza che non sarĆ più “composta di tristissimi sgherri e di vilissime spie, ma di uomini valorosi e di cuore”. “Laddove”, chiarisce Macry, “per sgherri e spie si intendono i vecchi tutori dellāordine e per uomini di valore i camorristi”. CosƬ, quando mesi dopo Garibaldi giungerĆ a Napoli, la troverĆ nelle mani dello Schiavetto, di Michele ‘o Chiazziere, di Tore ‘e Crescenzo e altri capi della criminalitĆ napoletana.
Ma la questione non riguarda solo come i Mille conquistarono il Meridione, ma come questo aderƬ al nuovo stato. E come sostiene Bettino Ricasoli, si dovrĆ prendere atto che i municipi meridionali hanno incluso nei propri ranghi “persone di perduta fama, persone implicate in processi tuttavia pendenti per furto e per omicidio, persone che subirono condanne sotto il regime borbonico non giĆ per reati politici, ma per truffe, per risse a mano armata, per furti e per altre iniquitĆ ”.
Precisa Macry, non ĆØ che allāepoca dei Mille fossero del tutto assenti nel Mezzogiorno persone animate da sentimenti di motivata adesione agli ideali della patria. Ma “al di sotto del fiume Garigliano, la nazione dei liberali diventa un fenomeno decisamente minoritario sul piano politico, sociologico e culturale. Non che nel resto della penisola sia unāistanza di popolo, ma ĆØ nel Sud che incontra adesioni estemporanee, disillusioni, rancori e infine una vera e propria reazione armata”. Ć giusto dire in maniera esplicita che “il Mezzogiorno non aderisce al nuovo Stato con le convinzioni radicate delle regioni centrosettentrionali; il suo tragitto ĆØ meno introiettato sul piano culturale e ideale, meno consapevole politicamente, meno chiaro sul piano sociologico”. Se si può parlare di “liberazione della Sicilia” non si può dire allo stesso modo di “liberazione di Napoli e del Sud continentale”.
Ed ĆØ cosƬ vero che dopo la spedizione di Garibaldi ci vorrĆ più di un lustro perchĆ© lāesercito sabaudo riesca a riportare un livello dāordine accettabile in quello che fu il Regno delle Due Sicilie. Impresa che impegnò sino a 115 mila soldati (in certi momenti quasi due terzi di tutte le forze armate del nostro Paese) e che produrrĆ più morti che lāintera epopea risorgimentale, guerre dāindipendenza incluse. Ma, dopo tutto ciò, il Mezzogiorno diventerĆ , secondo Macry, “il più italiano dei territori italiani” e “mai metterĆ in discussione lāunitĆ ”. CosƬ italiano che i deprecabili comportamenti, il trasformismo, la partecipazione alla res publica di personaggi discutibili e con in mente prima il loro tornaconto, e il loro conto, che lāinteresse generale sono diventati 150 dopo se non la norma, almeno unāabitudine condivisa da Palermo ad Aosta.