L’Iva aumentata conviene a cittadini e Stato, se l’ultimo anello della catena può “dedurre”

ROMA – Aumentarla, almeno di un punto, ma soprattutto dedurla. Aumentarla l’Iva perché non è vero che un punto in più sulle aliquote massime produce inflazione e calo dei consumi, non è successo negli altri paesi e non sta scritto da nessuna parte debba accadere in Italia. Italia che l’aliquota l’ha fissata al 20 per cento mentre altri dodici paesi in Europa l’hanno più alta. Aumentarla per trovare qualche miliardo da destinare alla crescita che altro non può essere che abbassare un po’ di tasse su produzione e salario. Ma soprattutto dedurla, cioè rendere possibile la deduzione dell’Iva all’ultimo anello della catena, quello che davvero la paga tutta. Ottenendo così un vero e stabile risultato contro l’evasione fiscale.Il tema cruciale di questi giorni, che agita economia e politica, famiglie e lavoratori, è trovare denaro per far quadrare i conti dello Stato che, così come sono, proprio non vanno. I nostri conti già non erano ben messi, nonostante le continue rassicurazioni governative, prima di questa tragica estate, tragica per l’economia globale s’intende. La crisi, il crollo delle Borse, hanno ovviamente aggravato la già precaria situazione e alla manovra da poco varata se ne sta aggiungendo un’altra. Del “come” si può discutere, ma che nuovi soldi vadano trovati è una certezza granitica. E, se da un lato si vogliono proteggere le famiglie e il loro potere d’acquisto, dall’altro sempre di parla di combattere l’evasione che nel nostro Paese rappresenta una bella fetta dell’economia. Facile a dirsi ma difficile a farsi. Proclami che raramente si traducono in provvedimenti concreti e tasse che sempre più alla fine gravano sui lavoratori dipendenti. Ma una soluzione c’è. Parola di Alberto Brambilla. Chi era costui? Il presidente del nucleo di valutazione spesa previdenziale del ministero del lavoro, uno che in questa materia è certamente competente e che ha deciso di scrivere al Sole24Ore per spiegare come, semplicemente, si potrebbero difendere le famiglie e, allo stesso tempo, colpire gli evasori.

Il segreto è nell’Iva, la famigerata imposta sul valore aggiunto che spesso riempie la bocca dei politici che a volte vorrebbero abbassarla, o dirottarla agli enti locali o alzarla, a seconda delle occasioni. Tutti, in teoria, paghiamo l’Iva. Ma in realtà questa forma d’imposta assomiglia più ad una catena che alla fine si abbatte solo sull’ultimo anello o, per usare un termine di berlusconiana memoria, sull’utilizzatore finale. Già perché tutti sono soggetti al pagamento dell’Iva, lo è l’imbianchino che compra la latta di vernice come lo è il ferramenta che la latta vende, così come lo è chi quell’imbianchino chiama per ridipingere casa. Ma mentre il ferramenta e l’imbianchino possono scaricare la loro fetta d’Iva, altrettanto non può fare l’ultimo anello della catena, che è, spesso, l’unico a pagarla. E allora che fare? Brambilla propone una soluzione che somiglia all’uovo di Colombo.

Scrive il presidente del nucleo di valutazione spesa previdenziale del ministero del lavoro: “Poiché la situazione economica è veramente difficile occorre con coraggio intraprendere strade nuove per rendere più efficace la lotta all’evasione fiscale e per dare più soldi alle famiglie, aumentando i consumi, senza incidere sui costi dello Stato. Ecco una prima proposta:

A: in via sperimentale e per un periodo di due anni, l’Iva sul alcune prestazioni ben identificate (riparazioni di auto, moto e biciclette, elettriche, idrauliche, di tappezzeria, imbiancatura, riscaldamento, mobili) viene ridotta al 5%.

B: a fronte di fattura giustificativa, le famiglie potranno dedurre dalla dichiarazione o ridurre il prelievo fiscale comunicando le deduzioni al datore di lavoro, fino a 5mila euro l’anno; per famiglie con più di un figlio la deduzione potrebbe essere maggiore e riguardare anche i servizi alla famiglia.

C: per i soggetti che emettono fatture false o inesistenti si preveda la chiusura dell’esercizio per sei mesi, mentre per il cittadino che deduca costi inesistenti, una ammenda pari a 10 volte la cifra illegalmente dedotta.

D: dopo i due anni sperimentali si potrà eventualmente tornare al regime odierno.

Vediamo i vantaggi; per il pensionato/lavoratore, se effettua spese per 5mila euro pagherà sì 250 euro di Iva, ma potrà dedurre ad aliquota marginale (supponiamo il 27%) i 5.250 euro, recuperando una sorta di “quattordicesima mensilità” di ben 1.417 euro.

E lo Stato? Sotto il profilo Iva – se è vero, come è vero, che oggi ogni 10 prestazioni se ne fatturano meno di due – l’incasso passerebbe da 40 a 50 (2 prestazioni al 20% contro 10 al 5%) ma anche se fosse pari sarebbe, comunque, neutro. Inoltre l’artigiano pagherebbe sul fatturato un’aliquota almeno pari a quella che il fruitore della prestazione ha dedotto, ma è probabile che scatti anche l’aliquota successiva (38%); nel primo caso quello che viene dedotto dal dipendente viene pagato dall’autonomo e quindi otterremo finalmente una più equa distribuzione tra chi è soggetto alla ritenuta alla fonte e chi può decidere che reddito dichiarare. Nel secondo caso lo Stato incasserebbe di più. Ma quel che più è importante è che sul dichiarato l’autonomo finalmente pagherà i contributi sociali il che significa per lo Stato: a) incassare il 20% in più da inserire nel conto della previdenza; b) quando si pensionerà l’autonomo avrà finalmente versato contributi tali da poter fare a meno dell’integrazione al minimo a carico della fiscalità generale (cioè di tutti gli onesti, per amore o per forza). E si badi bene che oggi su 23,5 milioni di prestazioni previdenziali in pagamento oltre 9 milioni (quasi il 40%!) sono integrate dallo Stato e buona parte di queste sono in favore dei lavoratori autonomi.

Per chi come il sottoscritto provvede ogni anno al monitoraggio della spesa previdenziale, sapere che oggi su 41 milioni di contribuenti, ben 14 milioni dichiarano nulla o poco e altri 13,5 milioni dichiarano tra i 10 e i 20mila euro, togliendo dal totale gli 11 milioni di pensionati, restano 16 milioni di lavoratori attivi, significa non sapere come si potrà fare a pagare la pensione; se invece con il sistema indicato si ridurrà il sommerso, significherà avere anche meno costi previdenziali.

Quello che dovrebbe avere la politica oggi è il coraggio di inventare un’idea un obiettivo comune che alla fine del percorso consenta a tutti di migliorare la propria condizione; la “meta” potrebbe essere il miglioramento del proprio benessere che si “sposa” con “il dovere civico di pagare tutti, dipendenti e autonomi, tasse giuste per un paese più equo e solidale”; insomma un afflato collettivo che unisca l’azione di tutti nell’interesse dello Stato, visto questa volta come parte della propria vita della propria “polis” e non come un esattore”.

L’idea di Brambilla non è peregrina, la fonte che la propone è competente e consentirebbe di prendere i classici due piccioni con una fava, tutela delle famiglie e dei lavoratori dipendenti e lotta all’evasione. Ma Brambilla è solo un “tecnico” e non vuole certo sostituirsi ai nostri rappresentanti e, infatti, conclude il suo articolo invitando, con malcelata e quasi disperata ironia, chi siede in Parlamento a pensarci su e, possibilmente, migliorare la sua proposta.

“L’idea è grezza, ma sicuramente il presidente del Consiglio, Casini, Martino, Pera e tutti i liberali che puntano a “meno tasse e più sviluppo” sapranno migliorarla”.

Speriamo abbia ragione.

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Alberto Francavilla