ROMA – Correva l’anno 1987 quando gli italiani decisero di dire addio al nucleare. Nei 26 anni trascorsi da allora ancora non abbiamo concluso le operazioni di spegnimento, tanto è vero che una società creata ad hoc, la Sogin, vanta la bellezza di 900 dipendenti, in crescita rispetto a due anni fa, e nel quarto di secolo inutilmente trascorso la brillante operazione è costata 15 miliardi di euro.
Un conto salatissimo quello pagato dagli italiani per la rinuncia al nucleare. Un conto pari ad un punto percentuale di Pil ed una cifra con cui si sarebbero potute costruire 10 centrali nucleari. Eppure una cifra che non è bastata a noi per spegnerne 4. Supporre, immaginare che ci siano stati degli sprechi, per usare un eufemismo, e che per qualcuno la rinuncia all’atomo sia diventata un affare è più che legittimo.
Scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera:
“Da 25 anni lo smantellamento di quegli impianti è un cruccio, o un affare secondo i punti di vista, che va avanti senza sosta. Se ne sta occupando una società pubblica, la Sogin, attualmente presieduta dall’ex ambasciatore a Mosca e Londra Giancarlo Aragona. Nata da una costola dell’Enel e ora di proprietà del Tesoro italiano, negli anni passati si è anche trovata al centro di polemiche decisamente singolari. Memorabile l’apertura di una lussuosa sede a Mosca negli anni più intensi del feeling fra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin, cementato da un accordo formidabile: perché mentre lo smantellamento delle nostre centrali nucleari procedeva con il contagocce, avevamo preso con i russi l’impegno di smantellare i loro sommergibili atomici. Altrettanto memorabili alcune iniziative d’immagine, fra cui la partecipazione alla Fiera del libro usato, cara all’ex senatore Marcello Dell’Utri, per la modica cifra di 1.257 mila euro più Iva. Per non parlare di alcune assunzioni di parenti e amici”.
Questo però, come scrive Rizzo, è il passato ed oggi la situazione è completamente diversa. Basta leggere l’ultima relazione della Corte dei Conti per rendersene conto: nel 2011, a nemmeno un quarto di secolo dal referendum, la Sogín Wha intensificato l’attività di smantellamento, per la prima volta aggredendo il core delle centrali”.
La “prima volta” sì, avete letto bene. Cos’ha fatto sinora? Boh. Ma che fretta c’era, le cose vanno fatte con calma, specie quando c’è di mezzo il nucleare. Il tutto, neanche a dirlo, avvalendosi di ditte specialistiche rigorosamente esterne visto lo scarso organico interno che, dalla medesima relazione dei magistrati contabili, si apprende essere di 887 unità (al 31 dicembre 2011). Quattro gatti, tanto è vero che rispetto a due anni prima l’organico è cresciuto di sole 71 persone, un’assunzione ogni dieci giorni scarsa.
Chi paghi il conto non ci sarebbe nemmeno da chiederlo, ma è comunque bene ricordarlo: gli italiani, comodamente in bolletta. Lo smantellamento delle centrali atomiche grava infatti sulle tariffe elettriche in base a un provvedimento del 2001, che stabilì per completare l’operazione un finanziamento a favore della Sogin con il prelievo sulle bollette pari 6,5 miliardi di lire. Ovvero, 4 miliardi 236 milioni di euro attuali, da spalmare su un periodo di vent’anni: sempre che non fossero intervenute le solite difficoltà poi puntualmente verificatesi.
Tanto? Nemmeno per sogno. Quei 4 miliardi 236 milioni di oggi non sono infatti gli unici costi sopportati dai cittadini per l’abbandono da parte dell’Italia dell’opzione atomica, sono anzi la punta dell’iceberg perché, a loro, vanno aggiunti gli indennizzi astronomici corrisposti all’Enel e agli appaltatori e fornitori della centrale di Montalto di Castro che nel 1987 era quasi completata. Indennizzi che ammontano ad 11 miliardi 456 milioni di euro del 2012. Appena il doppio della cifra (5.500 miliardi di lire, pari a 4 miliardi 706 milioni di euro di oggi) che era stata stimata congrua da una commissione di esperti all’inizio degli anni Novanta.
Il conto finale è quindi di 15 miliardi 692 milioni di euro al valore attuale. Un punto di Pil, come detto. E una cifra con cui un Paese civile costruisce non una, ma dieci centrali nucleari.