ROMA – Era il 27 gennaio scorso quando Mario Monti disse, al termine di un lungo Consiglio dei ministri: “Avvieremo una pubblica consultazione”. Il riferimento era alla riforma del valore legale del titolo di studio. Tema delicato aveva scoperto il premier, che aveva così optato per uno stop e un giro di consultazioni con le “parti”: studenti, professori, aziende e lavoratori. Subito dopo quell’annuncio si era parlato di un’operazione rapida, da lanciare nel giro di due o tre settimane al massimo. Invece di settimane ne sono passate quasi cinque e non solo la consultazione non s’è fatta, ma non se n’è nemmeno mai più parlato. Che fine ha fatto?
Il punto in discussione era, in sostanza, quello di modificare l’attuale situazione in cui la laurea di una buona università vale come quella presa a distanza con gli atenei telematici, solo per fare un esempio. Tema assai sentito perché una riforma dello status quo cambierebbe il modo in cui la pubblica amministrazione si rapporta con i laureati in cerca di lavoro, le aziende private possono già di fatto stabilire che una laurea presa in un dato ateneo valga più di una stessa laurea presa altrove, il pubblico no. Il tema dunque è quello dell’uso del titolo nel settore pubblico. Se un’azienda privata può distinguere tra un laureato in un ateneo di primo livello e uno che ha frequentato una università meno prestigiosa, allo stesso modo dovrebbe poter distinguere anche la pubblica amministrazione. Voto e tipo di laurea, dunque, potrebbero non contare più nulla ai fini della graduatoria in un concorso pubblico, mentre potrebbe pesare nel punteggio l’ateneo di provenienza.
Nello stesso governo, posizioni diverse: Monti si era detto personalmente favorevole ad una riforma, con lui il ministro Severino, in linea di massima favorevole, che chiedeva però che la misura venisse applicata con gradualità mentre, Anna Maria Cancellieri, ministro degli Interni, era nettamente contraria all’abolizione del valore legale della laurea. Riforma “più complicata di quanto possa sembrare”, commentò Monti. Meglio affidarsi ad una consultazione, un po’ per sapere cosa ne pensano le parti in causa, e un po’ per cercare un consenso in grado di supportare la scelta.
Buona l’idea, in teoria. Ma la consultazione non s’è vista. In pratica si è probabilmente sottovalutato il rischio che una simile consultazione sveli che il valore legale del titolo di studio piace, se non a tutti, almeno a molti. E se così fosse, chiaramente, addio riforma. O più semplicemente, si è ragionato che una consultazione siffatta è poco attendibile, oltreché difficilmente praticabile, almeno via internet, come in un primo momento era sembrato. Oppure, stranamente nel caso del governo Monti, si è scelto allora di adottare uno schema “politico”: quello di accantonare rinviando a data da destinarsi, con un pizzico di demagogia, un problema che non si è al momento in grado di risolvere.
Del mancato impegno, della consultazione smarrita si è ricordato in prima pagina il Corriere della Sera. Che non fa ipotesi sulla ragione della dimenticanza o del prolungato ritardo. Il quotidiano registra e segnala. E se la “consultazione” il governo l’avesse invece in qualche modo e sotto traccia fatta davvero? E avesse scoperto che sull’abolizione del valore legale della laurea, del “pezzo di carta”, finiva come sulle nuove licenze taxi o sui preventivi obbligatori dei professionisti o sul tirocinio da retribuire ai giovani negli studi degli avvocati? E se Monti, fatta la consultazione, avesse tentato di sfilarsi all’inglese dopo aver constatato che il “pezzo di carta” non qualifica, non garantisce lavoro e competenza ma guai a chi lo tocca? A pensar male…