L’idea di un museo del fascismo solleva il solito dibattito fra tifoserie. Un dibattito pregiudizievole che non aiuta a capire.
Il sindaco di Roma, Virginia Raggi, ha deciso che non se ne fa nulla. Basta con la vecchia politica. Come se la storia fosse polvere da nascondere sotto il tappeto dell’oggi.
Sono nato ad Andria, una popolosa città della Puglia che fu socialista durante il biennio rosso e fascista dalle elezioni del 1924.
Città che Mussolini frequentò come capo dei socialisti e delle leghe contadine, prima che come Duce assoluto del fascismo. Città delle rivolte dei braccianti nel dopoguerra e dell’eccidio delle sorelle Porro nella primavera del 1946.
Da ragazzino scorrazzavo nella pineta della villa comunale che si chiudeva con il campo sportivo. Il quale sarebbe diventato “Stadio” ai tempi gloriosi e brevi della serie B. Al tempo non ci facevo caso, ma la porta dell’ingresso era ed è una ciclopica M. Un mio zio fascista mi spiegò essere un omaggio a Mussolini, il Duce che gli italiani avevano tradito. Né lui né mio padre avrebbero mai digerito “là viltà dell’8 Settembre”.
La porta con la M è ancora lì, museo della memoria all’aperto. La squadra arranca fra i dilettanti. Il campo sportivo, costruito negli anni Trenta, oggi si chiama Stadio degli Olivi, in omaggio alla cultura dell’olio tipico di quelle terre. Ma era nato come “De Pinedo” in omaggio all’eroico pilota che aveva raggiungo la gloria con la trasvolata Tokyo-Roma nel 1925.
Dell’Aviatore si è persa la memoria, ma la M dello stadio è il racconto ancora vivo del fascismo che aveva ricostruito la Puglia, ma aveva ucciso Peppino Di Vagno, aveva perseguitato gli antifascisti e gli ebrei, si era isolato dal mondo e aveva trovato in Hitler il suo riferimento di distruzione e di morte.
Quella M è anche la prima consonante di Memoria. La Raggi e i suoi evidentemente non ne sentono l’esigenza e il bisogno. Un mio vecchio amico direbbe “so’ ragazzi”. E forse sarebbe meglio il detto napoletano “‘a fess man ai creatur…”