ROMA – Giulio Andreotti non aveva un corpo, lo aveva negato rimanendo letteralmente immobile, in una postura così rigida e immutabile da diventare ieratica: del “Divo” Giulio non si ricordano gesti, carezze, abbracci, scoppi d’ira… però finì sul banco degli imputati per un bacio, quello col “Capo dei capi” Totò Riina, raccontato da più di un pentito. La sua reazione fu, come al solito, una battuta: “Io baciato Riina? Io che manco bacio mia moglie?”
Andreotti nell’immaginario collettivo era bidimensionale: occhiali, orecchie a sventola, labbra sottili dalle quali di solito faceva capolino un sorriso ironico (immagine frontale); gobba (immagine di profilo).
Eppure, scrive Marco Belpoliti su La Stampa citando il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, “la parola è un gesto“:
“allora possiamo dire che Andreotti ha avuto un grande corpo, perfino troppo manifesto, per via dei colpi di frusta, e persino di lancia e spada, con cui ha trafitto avversari, amici e colleghi. La parola è stata la vera veste terrena del Divo, la sua maggior manifestazione tangibile”.
Vale la pena ripercorrere le frasi celebri, i “Giulio dixit”, a partire dai grandi e abusati classici come “il potere logora chi non ce l’ha” e “a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina”.
C’è la serie delle battute sulla morte, alla quale viene contrapposto un pragmatico attaccamento alla vita nella famosa battuta “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Dello stesso tenore è “considero sopravvivere una grazia di Dio”.
Sul bilancio della sua vita: “Io in fondo sono postumo di me stesso” oppure “non sono pronto. Spero di morire il più tardi possibile. Ma se dovessi morire tra un minuto so che non sarei chiamato a rispondere né di Pecorelli né della mafia. Di altre cose sì, ma su questo ho le carte in regola”. Autoironico anche quando disse: “A parte le guerre puniche mi viene attribuito veramente tutto”. Orgoglioso: “Nel 1919 sono nati il Ppi di Sturzo, il fascismo e io. Di tutti e tre sono rimasto solo io”. Scaramantico: “Di feste in mio onore ne parleremo quando compirò cent’anni”.
Appassionato di sport, ma come spettatore, non come praticante. Nel “Divo” di Paolo Sorrentino è riportato un famoso botta e risposta col suo medico:
Medico: “Dovrebbe fare un po’ di sport”.
Andreotti: “Tutti i miei amici che facevano sport sono morti da tempo”.
Medico: “È un caso”.
Andreotti: “Io non ci credo al caso, io credo alla volontà di Dio”.
Sezione frecciate: “La cattiveria dei buoni è pericolosissima”; “L’umiltà è una virtù stupenda. Ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi”; “Io distinguerei i morali dai moralisti perché molti di coloro che parlano di etica a forza di discutere non hanno poi il tempo di praticarla”; “Perché la bellissima frase ‘La Giustizia è uguale per tutti’ è scritta alle spalle dei magistrati?”
C’è molto dell’immobilismo andreottian-democristiano in un’altra celebre battuta: “I pazzi si distinguono in due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato”.
Andreotti filo-arabo: “Se fossi nato in un campo profughi del Libano, forse sarei diventato anch’io un terrorista”. Il suo commento alla caduta del Muro di Berlino: “Amo talmente la Germania che ne preferivo due”.
La politica come compromesso: “Essendo noi uomini medi le vie di mezzo sono per noi le più congeniali”. Lezioni di democrazia: “Non basta aver ragione, bisogna anche aver qualcuno che te la dia”.
Della potenza della “parola di Giulio” un efficace affresco ce lo ha dato Oriana Fallaci. Una potenza che faceva paura:
“Lui parlava con la sua voce lenta, educata, da confessore che ti impartisce la penitenza di cinque Pater, cinque Salve Regina, dieci Requiem Aeternam, e io avvertivo un disagio cui non riuscivo a dar nome. Poi, d’un tratto, compresi che non era disagio. Era paura. Quest’uomo mi faceva paura. Ma perché?
A chi fa paura un malatino, a chi fa paura una tartaruga? A chi fanno male? Solo più tardi, molto tardi, realizzai che la paura mi veniva proprio da queste cose: dalla forza che si nascondeva dietro queste cose. Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza.
L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla. A ogni domanda sgusciava via come un pesce, si arrotolava in mille giravolte, spirali, quindi tornava per offrirti un discorso modesto e pieno di concretezza. Il suo humour era sottile, perfido come bucature di spillo. Lì per lì non le sentivi le bucature ma dopo zampillavano sangue e ti facevano male”.