Cop19: clima, parliamone. Nel Paese più malato di carbone: la Polonia

Una centrale a carbone in Polonia (LaPresse)

VARSAVIA, POLONIA – Segnatevi questi due nomi: Belchatow e Opole. Sono i simboli della vecchia e della nuova Polonia, entrambe accomunate dalla dipendenza dal carbone.

La centrale di Belchatow, 12 unità per oltre 5000 megawatt di potenza, è alimentata a lignite, minerale che ha un potere combustibile più basso del carbone e quindi deve essere bruciato in maggiori quantità. Il risultato è che dalle 10 ciminiere del più grande e più inquinante impianto a carbone d’Europa vengono riversate nell’atmosfera più di 30 milioni di tonnellate di CO2 all’anno.

L’Unione europea ha chiesto più volte alla Polonia di intervenire su Belchatow. Ma Varsavia non vuole rinunciare al suo “mostro”, attivo dagli anni 70, che fornisce al Paese un quinto dell’energia elettrica. Così non solo non ha spento le vecchie unità, ma ne ha accesa un’altra – nuova e per lo meno più rispettosa dei parametri sulle emissioni – da 830 megawatt: Belchatow ha fatto 13.

Se vecchie centrali come Belchatow sono il passato e il presente della Polonia, il futuro non sono certo le rinnovabili. Il futuro è Opole, capoluogo dell’omonimo voivodato al confine con la Repubblica Ceca. Qui il governo di Donald Tusk progetta la costruzione di due nuove centrali da 900 megawatt. Ovviamente a carbone, e in violazione delle normative europee sul Ccs (Carbon Capture and Storage), lo stoccaggio sotterraneo della CO2 per immettere meno gas serra nell’atmosfera.

Le emissioni dei due nuovi impianti, stimate pari a 1,5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica per i prossimi 55 anni, impedirebbero alla Polonia di raggiungere l’obiettivo del 15% di energia prodotta da fonti rinnovabili entro il 2020. Obiettivo che il governo si è dato per cercare di allinearsi al resto dell’Europa.

L’inizio dei lavori a Opole è previsto per il 15 dicembre. Ovvero un mese dopo che Varsavia avrà finito di ospitare – dall’11 al 22 novembre – COP19, la diciannovesima conferenza mondiale sul clima, nella quale tra le altre cose si tenterà – per l’ennesima volta – di trovare un accordo per un tetto alle emissioni di CO2, di cui il carbone è uno dei primi responsabili.

L’anno scorso COP18 si era tenuta a Doha, simbolo del petrolio, capitale del Qatar che è il Paese con il record di emissioni di gas serra per abitante. C’è una paradossale coerenza nel passare dalla città costruita sull’oro nero alla nazione più “coal-holic” d’Europa, quella che ha bloccato tutti i tentativi di Bruxelles di emanciparsi dai combustibili fossili e fare rotta sicura sulle fonti rinnovabili.

“Coal-holic”, perché la Polonia ottiene dalle sue 49 centrali a carbone il 92% dell’energia elettrica e l’89% del riscaldamento, secondo i dati della World Coal Association. Cosa che la rende il 10° consumatore di carbone al mondo e il secondo in Europa, preceduta solo dalla Germania. Le ragioni di questa dipendenza si trovano nel sottosuolo polacco, ricco del combustibile fossile simbolo della rivoluzione industriale.

Il boom del carbone in Polonia risale agli anni 70, proprio quando venne costruita ed entrò in funzione la centrale di Belchatow. In quegli anni il Paese, ancora satellite dell’Unione sovietica, diventò il primo produttore di carbone in Europa e fino al 1979 fu secondo solo agli Stati Uniti come esportatore mondiale di carbone.

Negli anni 90, durante la complicata transizione fra comunismo ed economia di mercato, il congelamento del prezzo del carbone servì alla Polonia per calmierare il costo della vita e tenere sotto controllo l’inflazione. Varsavia conobbe subito la ripresa economica, a differenza di altri Paesi del blocco sovietico: fu una ripresa alimentata a carbone.

In un Paese dove molto si è liberalizzato e privatizzato, l’industria del carbone è rimasta sotto il controllo diretto o indiretto dello Stato, che ha tutte le sue ragioni per ritenerlo un settore di primaria importanza. Quelle centrali danno lavoro a 100.000 polacchi e, secondo il dipartimento per le Politiche strategiche dell’Energia del governo di Varsavia, il carbone resterà fino al 2030 la chiave per la sicurezza energetica della nazione.

Con queste premesse, Polonia e Ue non possono che scontrarsi. L’Europa, che è nata nel 1951 come “Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio” (Ceca), ha da tempo deciso di de-carbonizzarsi. Per il 2020 il pacchetto Clima ed Energia prevede un obiettivo del 20-20-20: 20% di emissioni di gas serra rispetto al 1990, 20% di energia presa da fonti rinnovabili, 20% di aumento dell’efficienza energetica.

Per incentivare chi punta sulla green economy e scoraggiare gli Stati che inquinano, Bruxelles ha brevettato l’Ets (Emissions Trading System), un meccanismo che fissa un tetto alle emissioni di anidride carbonica e allo stesso tempo permette ai Paesi virtuosi di vendere le quote di CO2 – all’asta – a chi sfora il tetto: chi non rispetta i limiti paga, chi li rispetta incassa.

Ma il prezzo di quelle che potremmo chiamare “quote-carbone” è crollato (troppa l’offerta, scarsa la domanda) dai 30 euro per tonnellata di CO2 del 2005 ai 4,1 euro di adesso. Così è più conveniente inquinare che investire in energia pulita.

Ma su questo punto si è consumata l’unica sconfitta dei polacchi e della “lobby del carbone”: il parlamento Europeo a luglio ha approvato per pochi voti, dopo averla bocciato in aprile, il blocco delle aste 2013-15 per l’emissione di 900 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Congelando il mercato e riducendo l’offerta, l’obiettivo del commissario all’Ambiente Connie Hedegaard è di riuscire a far salire il prezzo delle quote di CO2 fino a 6-7 euro.

Come hanno reagito a Varsavia? Provando a convincere l’Europa a mischiare le carte. Gli argomenti sono “il carbone pulito”, “il carbone conveniente” e “il carbone amico del Pil”.

Ecco come il vicepremier Janusz Piechocinski, con la Conferenza sul clima in corso a Varsavia, ha portato la battaglia pro-carbone nel cuore del “campo nemico”, all’Europarlamento di Bruxelles:

“L’87% dell’energia prodotta in Polonia arriva dal carbone, ma rispettiamo i nostri impegni internazionali sul fronte delle emissioni di CO2. Ora lavoriamo su ricerca e sviluppo nel campo delle tecnologie del ‘carbone pulito'”. Il ministro dell’economia polacco preme perché Bruxelles punti su efficienza energetica e innovazione tecnologica, di cui il carbone faccia parte. La Polonia conferma la sua posizione nell’Ue a difesa della principale fonte di energia del Paese e gioca la carta della competitività e della necessità di impiegare le fonti energetiche disponibili più convenienti.

Il costo dell’energia in Germania, con gli incentivi alle rinnovabili “è cinque volte quello dell’energia in Polonia“, ha spiegato il vicepremier, che in sostanza non vede il carbone come incompatibile “con la tutela dell’ambiente e del clima” e propone nuovi target per il 2020, oltre quelli di taglio della CO2, più efficienza energetica e rinnovabili. “Dobbiamo ampliare i target introducendo la riduzione del 20% dei prezzi dell’energia e puntando al 20% di Pil dall’industria” ha detto Piechocinski, che ha confermato l’impegno di tagliare la produzione di energia da carbone del 40% al 2050. Ma questo non significa abbandonarne l’uso e Varsavia esplora nuove tecniche, come “la gassificazione sotterranea del carbone”. “L’Unione europea dovrebbe aprirsi a questa nuova tecnologia” ha affermato il vicepremier polacco.

Ma un altro piccolo colpo alla coal-holic Polonia è arrivato dalla Banca Mondiale e dalla Banca Europea di Investimenti (Bei), che hanno deciso di non finanziare più le centrali a carbone.

Però l’economia polacca è in netta ripresa, cosa che rende Varsavia in grado di pagarsi la costruzione delle sue Opole in orgogliosa autarchia.

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