Presidente della Repubblica. Prodi, Rodotà, Marini, D’Alema, Amato: i ritratti dei “Quirinabili”

ROMA – Romano Prodi, Stefano Rodotà, Franco Marini, Massimo D’Alema e Giuliano Amato: questi i nomi più probabili all’inizio delle votazioni per il presidente della Repubblica. Scopriamo chi sono i “quirinabili”, i probabili successori di Giorgio Napolitano.

Romano Prodi (Scandiano, 9 agosto 1939) detto il Professore, per via della sua carriera accademica (37 lauree honoris causa), o Mortadella, data la faccia da buongustaio e la provenienza da terre dove l’insaccato è uno stile di vita. Lui in ogni caso rimedia con lunghe pedalate in bicicletta. “Testa quadra”, come si conviene a un reggiano doc, parla sibilando suoni impercettibili che hanno messo in difficoltà più di un giornalista al suo seguito. Ottavo dei nove figli dell’ingegnere Mario Prodi, sa essere freddo e spietato nonostante l’aria paciosa. Nel 1978, in pieno sequestro Moro, da una seduta spiritica venne fuori il nome “Gradoli”, che poi si scoprì essere una via dove c’era un covo delle Brigate Rosse. A quella seduta in una casa di campagna erano presenti gli economisti Mario Baldassarri, Alberto Clò e Romano Prodi. I quali hanno poi dichiarato di non avere mai più ripetuto esperimenti del genere in vita loro.

Prodi all’epoca era già un astro nascente, delfino di Beniamino Andreatta del quale era stato assistente universitario. Di lì a pochi mesi sarà nominato da Andreotti ministro dell’Industria. Dal 1982 al 1989 è presidente dell’Iri, appoggiato da Ciriaco De Mita. Ciampi lo rivorrà all’Iri dove gestirà una difficile fase di privatizzazioni dal 1993 al 1994. Nel 1995 è fra i fondatori dell’Ulivo, un anno dopo batte Berlusconi alle politiche e diventa premier. Due anni dopo il suo governo, quello che nel 1998 ci aveva fatto entrare nell’Euro con “l’eurotassa”, poi restituita al 60% nel ’99, cade.

Lui fonda I Democratici, poi si consola con la presidenza della Commissione Europea. Ritorna sulla scena politica italiana nel 2005, quando con l’Unione, il nuovo nome dell’Ulivo, viene ricandidato a premier. Batte di nuovo Berlusconi, ma per 26 mila voti. La nuova legge elettorale, il porcellum, rende più facile – col premio di maggioranza – la vita alla Camera, ma più difficile – coi 20 premi di maggioranza su base regionale – la vita al Senato, dove il centrosinistra ha solo un pugno di seggi in più. Il Prodi II cadrà infatti al Senato, dopo meno di due anni di navigazione a vista.

Il Professore da allora si è vendicato col silenzio, interrotto solo da qualche articolo e qualche intervento, in attesa di rifarsi all’occasione giusta, che forse è giunta adesso (rivedersi l’imitazione di Corrado Guzzanti per capire). Freddina la sua accoglienza alla vittoria del corregionale Bersani – ministro in entrambi i suoi governi – alle primarie di dicembre. Tanto che più di qualcuno ha sospettato che Prodi (e i prodiani) abbiano votato per Renzi. Il sindaco di Firenze dal canto suo si è sbilanciato più di una volta a favore della candidatura Prodi. Che potrebbe prendere quota dalla quarta votazione in poi, se sul suo nome si incontreranno la maggioranza del centrosinistra, del M5S e dei montiani.

nella pagina successiva: Stefano Rodotà e Franco Marini

Stefano Rodotà (Cosenza, 30 maggio 1933) viene da una famiglia arbëreshë – minoranza italo-albanese – di San Benedetto Ullano (Cosenza). Giurista e professore di Diritto Civile a La Sapienza, entra a far parte del partito Radicale di Mario Pannunzio. Ma quando nel 1979 è eletto deputato, lo è da indipendente nelle file del Pci. Rimarrà alla Camera per quattro legislature. Nel 1987 è presidente della prima Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, nel 1992 vicepresidente della Camera. Sarà anche il primo presidente del Pds. Dal 1996 lega il suo nome alla parola privacy. È autore della prima legge sulla Privacy – croce dei siti internet e delizia degli avvocati – e dal 1997 primo garante della Privacy.

Curioso il fatto che nello stesso periodo sua figlia, la giornalista Maria Laura Rodota, curi una rubrica di gossip sul settimanale L’espresso. Se è vero che la legge scritta da Rodotà – con concetti come il diritto all’oblio – complica non poco la vita di chi fa informazione sul web, è vero anche che il giurista calabrese si è dimostrato molto sensibile ai problemi della libertà di internet, che più volte in Italia e all’estero è stata nel mirino di disegni di legge molto restrittivi. È questo aspetto che fa di Rodotà il (terzo) candidato al Quirinale preferito dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Un altro punto di contatto è l’instancabile attività di promotore dei diritti civili, tanto che c’è chi lo ha definito “una onlus democratica”. È stato uno degli autori della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea. Il suo ultimo libro è Il diritto di avere diritti (Laterza). Animatore di molti referendum, è ricordato da chi ha vissuto con entusiasmo la “primavera arancione” (maggio-giugno 2011) per essere stato fra i promotori dei comitati referendari per l’acqua pubblica. Un profilo “di lotta e di cambiamento” nel quale molti avevano visto il nome che avrebbe fatto Pier Luigi Bersani come candidato pd al Quirinale. Invece ci ha pensato Grillo. Parte con i voti del Movimento 5 Stelle, quelli di Sel e di parte del Pd. Le sue probabilità crescono dalla quarta votazione in poi.

Franco Marini (San Pio delle Camere – L’Aquila, 9 aprile 1933) detto il Lupo Marsicano, data la sua natura di silenzioso e inesorabile tessitore di trame. “Predatore” di tutti gli avversari politici (quasi sempre compagni di partito o di coalizione). Disse di lui Giuseppe, l’autista di Carlo Donat Cattin – che lo cooptò nella sua corrente dc Forze Nuove – “Onorevole, Marini è uno che uccide col silenziatore”. Donat Cattin rispose: “Giuseppe, hai ragione”. In pubblico alterna il sigaro alla pipa, tenuti in bocca quasi sempre spenti. Un altro vezzo è il cappello da alpino, che indossa spesso: ha fatto la leva negli alpini. Sarebbe il primo sindacalista presidente della Repubblica e il primo ex dc eletto al Quirinale nella Seconda Repubblica (Scalfaro fu votato nel maggio 1992). Mai antiberlusconiano, del leader pdl disse: “Nel 1994 ha dimostrato grande coraggio. Pochi avrebbero avuto la forza di fare quello che fece lui allora”.

Il padre era un operaio della Snia Viscosa di Rieti: fece quattro figli, Franco era il primogenito. Aveva 11 anni quando rimase orfano di madre: il padre si risposò e fece altri tre figli. Fonti internet parlano di una sua laurea in giurisprudenza ad Harvard grazie a una borsa del ministero della Guerra: cosa tutta da verificare. Di certo c’è che si iscrisse alla Dc nel 1950 e in parallelo iniziò la sua carriera alla Cisl, fino a diventarne segretario nel 1985. Nel 1991 fu nominato da Andreotti ministro del Lavoro. Nel 1992 entra per la prima volta in Parlamento, primo degli eletti nella Dc. Mino Martinazzoli gli affida il compito di responsabile organizzativo: organizzerà il suo trasloco nel Ppi. Dove lo troviamo al fianco di tutti i segretari: lo stesso Martinazzoli, Rocco Buttiglione, Gerardo Bianco. Finché nel 1997 il segretario diventa lui. Nell’ottobre 1998 è indicato, insieme a D’Alema, come il regista occulto della caduta di Prodi. Lo ammetterà qualche tempo dopo, come scrisse Francesco Verderami sul Corriere della Sera:

«È vero, io e D’Alema complottammo contro Prodi. Solo che io non mi sono mai pentito, Massimo sì. Ha provato perfino a riappacificarsi con Romano. Chissà, forse sperava di salvare palazzo Chigi. Che volete farci, uno il coraggio o ce l’ha o non ce l’ha». Un paio di commensali interruppero di colpo la masticazione, altri gli riservarono uno sguardo interrogativo. Marini non si curò e proseguì, disse che con Prodi «da quando era successa quella cosa», dai tempi del complotto insomma, «non ci parliamo più»: «Sì, ci siamo incrociati alcune volte a Strasburgo, ma non ci siamo nemmeno salutati. È andata così».

Il piano sarebbe stato: D’Alema a Palazzo Chigi, Marini al Quirinale, o perlomeno uno del Ppi. La seconda parte non verrà mai realizzata. Carlo Azeglio Ciampi viene preferito al Lupo Marsicano o altri popolari ed eletto presidente alla prima votazione. È a questa vicenda che si riferisce Matteo Renzi quando parla di Marini come “il candidato del secolo scorso”, anche se si capisce meno quando lo accusa: “Distrusse un partito, il Ppi, per candidarsi al Quirinale”. Lasciò la segreteria a Pierluigi Castagnetti, ma il Ppi era ancora in piedi, anche se ai minimi storici. Poi confluirà nella Margherita, dove nel 2002 Marini viene nominato responsabile organizzativo.

Si opporrà ancora una volta a Romano Prodi nelle fasi gestatorie del Partito Democratico: è contrario alla fusione coi Ds. Tuttavia risulterà poi fra i fondatori del Pd. Eletto presidente del Senato nel 2006, dopo aver battuto per un’incollatura Giulio Andreotti, riceverà da Napolitano un mandato esplorativo nel gennaio 2008, quando proprio al Senato viene impallinato il secondo governo Prodi. Ritorna nell’ombra fino al 2013, quando ottiene una deroga alla lex rottamatoria del Pd per potersi ricandidare al Senato in Abruzzo. Renzi gli attribuisce le colpe della sconfitta del Pd in Abruzzo: “Gli elettori lo hanno bocciato”. Ma è un po’ complicato dirlo dato il sistema elettorale proporzionale. Stefania Pezzopane, unica senatrice abruzzese del pd, difende Marini: “Poteva prendersi il posto di capolista e sarebbe stato eletto. Ma ha voluto rispettare l’esito delle primarie e ha lasciato quel posto a me”. Alla prima votazione è stato il candidato ufficiale di Pd e Pdl, ma ha preso solo 521 consensi (ne servivano 672, centrosinistra senza Sel e centrodestra fanno 719).

Nella pagina successiva: Massimo D’Alema

Massimo D’Alema (Roma, 20 aprile 1949) detto Baffino, Baffetto, Conte Max, Lider Maximo. Figlio di Giuseppe D’Alema, partigiano e deputato Pci dal 1963 al 1983, di pugliese ha solo la moglie Linda Giuva e il collegio elettorale. In realtà i D’Alema sono lucani. Leggenda vuole che a soli 9 anni tenne un discorso a un comizio del Pci, davanti a un estasiato Palmiro Togliatti. Frequenta la Normale di Pisa ma a un passo dalla laurea lascia gli studi. Nel 1975 è nominato segretario della Fgci (i giovani comunisti), nel 1983 entra nella direzione del Pci, nel 1987 viene eletto alla Camera, nel 1988, fino al ’90, dirige l’Unità. Per anni lui e Achille Occhetto sono i dioscuri del “nuovo” Pci. La coppia regge la svolta della Bolognina, ma non la sconfitta alle elezioni del 1994. D’Alema succede (battendo Walter Veltroni) al dimissionario Occhetto alla guida del Pds, pilotando il partito verso un’alleanza con le forze cattoliche di centro dalla quale nascerà l’Ulivo e la candidatura di Romano Prodi, vittorioso alle elezioni del 1996.

Eletto coi voti di Forza Italia presidente della Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali, sigla con Berlusconi il “patto della crostata” (cucinata dalla moglie di Gianni Letta). Non pago cucina un risotto durante Porta a Porta di Bruno Vespa. Gli si ritorce contro il neologismo “Inciucio”, che lui per primo – intervistato nel ’95 da Mino Fuccillo – aveva introdotto nel gergo politico. Ottiene di rianimare e legittimare politicamente il cadavere di Berlusconi, venendone in cambio pugnalato quando il Cavaliere fa saltare la Bicamerale. È il maggio 1998. Nei cinema proiettano Aprile di Nanni Moretti, quello della celeberrima battuta: “D’Alema, dì una cosa di sinistra, dì qualcosa…” Qualche mese dopo “baffino” diventa il primo comunista presidente del Consiglio, ma verrà sempre accusato di aver complottato con Cossiga per far saltare il governo Prodi. Un’altra cosa che la sinistra non gli perdonerà mai sono i bombardamenti sulla Serbia del 1999: dalle basi italiane, sotto il governo di un’ex comunista, partiranno i cacciabombardieri Nato in direzione Belgrado. Dopo la sconfitta del centrosinistra alle amministrative del 2000, passa la mano a Giuliano Amato.

Sei anni più tardi è ministro degli Esteri nel secondo governo Prodi. Si fa fotografare a spasso con gli Hezbollah in Libano, dove l’Italia guida un’operazione di pace. Caduto anche il Prodi II, D’Alema si rifugia nell’attività della sua ricchissima fondazione, Italianieuropei. Eletto nel 2010 presidente del Copasir, dopo il tramonto del “nemico” Veltroni, ne trova uno nuovo: Matteo Renzi, che lo usa nei suoi comizi come esempio di una politica da rottamare. D’Alema ricambia con un florilegio di battute al vetriolo. Tra i due il clima – complice la debacle di Bersani – si è rasserenato. Si sono incontrati qualche giorno fa, forse sperando di essere il futuro presidente della Repubblica che parlava col futuro presidente del Consiglio. D’Alema in realtà in questo momento appare come il nome di riserva che metterebbe d’accordo Pd e Pdl dalla quarta votazione in poi.

Nella pagina successiva: Giuliano Amato

Giuliano Amato (Torino, 13 maggio 1938) detto Dottor Sottile o Eta Beta. Nasce e cresce a Torino, ma è figlio di un impiegato della provincia di Agrigento. Gli Amato poi si trasferiscono in Toscana. Giuliano frequenta il liceo classico a Lucca e poi la facoltà di giurisprudenza (poi confluita nella Scuola Superiore Sant’Anna) della Normale di Pisa. Vanta un master in Law school alla Columbia University di New York. Si avvia a una carriera accademica di costituzionalista e allo stesso tempo si iscrive prima al Partito Socialista di Unità Proletaria (Psiup) poi al Psi, dove alla fine degli anni 80 sarà vicesegretario generale. Deputato dal 1983, sarà prima antagonista poi molto vicino a Bettino Craxi, al quale deve molta della sua fortuna politica.

Nel governo Craxi (1983-87) è infatti sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Poi vicepresidente del Consiglio e ministro del Tesoro nel governo Goria (1987-1988) e nel governo De Mita (1988-1989). Dal 1989 al 1992 è vicesegretario del Psi fino a quando il presidente della Repubblica Scalfaro affida al “Dottor Sottile” il compito di formare un governo che affronti la crisi finanziaria causata dal crollo della lira, con la conseguente svalutazione della moneta e l’uscita dallo SME (Sistema Monetario Europeo). Nei 298 giorni di presidenza Giuliano Amato vara una finanziaria durissima (la cosiddetta finanziaria “lacrime e sangue” da 93 mila miliardi), con misure come il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti fatto nella notte fra il 9 e il 10 luglio 1992. Il suo governo poi è travolto dalle inchieste di Tangentopoli, che comunque non lo riguardano mai direttamente.

Lui sparisce dalla scena politica, rifugiandosi nella presidenza dell’Antitrust, dove rimarrà fino al 1997. Sono gli anni del conflitto di interessi di Berlusconi, Amato non è fra gli antiberlusconiani e di questo il Cavaliere se ne ricorda oggi che il suo nome è uno di quelli che potrebbe andar bene al Pdl. Nel 1998 è ministro del Tesoro nel governo D’Alema, poi nel 2000 ritorna presidente del Consiglio. Tuttavia alle politiche del 2001 – nonostante l’indicazione della coalizione – preferisce lasciare il ruolo di candidato premier del centrosinistra a Francesco Rutelli.

Da allora colleziona presidenze a ritmi da primato europeo: vicepresidente della Convenzione europea, chiamata a disegnare la nuova architettura istituzionale dell’Ue (2002); presidente della Commissione internazionale sui Balcani (2004); presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani (2009); maggior consulente in Italia per la Deutsche Bank (2010); presidente onorario della Fondazione di ricerca storica “Ildebrando Imberciadori” (2010); presidente del Comitato dei Garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia (2011); presidente della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa (2012). Nel frattempo è stato ministro dell’Interno nel governo Prodi II (2006-2008), membro del Comitato nazionale della costituente e poi del coordinamento del Pd.

Ad Amato non mancherebbero statura, competenza e “terzietà” per fare il presidente della Repubblica. Ma a penalizzarlo è proprio la sua collezione bipartisan di poltrone: lo rende un simbolo della “Casta”, con o senza K, difficile da far digerire all’opinione pubblica. Se D’Alema è il nome di riserva dell’intesa Pd-Pdl, Amato in questo momento è la riserva di D’Alema, che potrebbe ritornare al centro delle trattative dalla quinta-sesta votazione in poi.

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