“E’ stato votato dalla maggioranza degli italiani”. “Ha il consenso popolare”. “I sondaggi lo danno sempre vincente”. E’ il ritornello che risuona in tutti i talk show, il copione recitato a memoria da tutti gli agit-prop del presidente del Consiglio. Una singolare concezione della democrazia: chi ha i voti può concedersi di fare e disfare a piacimento, legiferare ad personam o ad aziendam, spedire videocassette a reti unificate e molestare le trasmissioni tv (ma rifiutandosi di partecipare ai confronti in diretta), aggredire la stampa, denigrare i magistrati e perfino telefonare in questura, inventandosi una balla colossale per ottenere il rilascio di una minorenne che, in compagnia di altre, sollazza a pagamento il Sultano e i suoi Califfi. Abramo Lincoln a chi gli chiedeva cosa fosse la democrazia rispondeva che è “il governo del popolo, dal popolo, per il popolo”. La democrazia per Berlusconi è il governo del Presidente, dal Presidente, per il Presidente (e i suoi yesmen fedeli ed acritici).
Eppure, il 1 gennaio 1948 sembrava cosa fatta. Dopo i sei anni della seconda guerra mondiale e i venti anni della dittatura, dalla Resistenza e dallo sforzo di tutta la Società italiana del dopoguerra nasceva un Codice condiviso dei diritti e dei doveri che aveva, come affermava Calamandrei “una funzione rinnovatrice, progressiva”, ispirata alla “trasformazione della società”, e ad una concezione antiautoritaria dello Stato con una chiara diffidenza verso un potere esecutivo forte. Quanto la Carta fu promulgata gli italiani appresero che “la sovranità è del popolo”, e che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge. Non c’era alcuna postilla che indicasse che un cittadino è “più uguale degli altri” (come ebbe a definirsi il presidente del Consiglio durante un’udienza del processo Sme).
A 63 anni di distanza dovremmo porci il problema di come estendere i diritti sanciti, di quale combustibile mettere dentro quella Costituzione, per dirla ancora con Calamandrei, “che non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé ma che ha bisogno de “l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”. Oggi invece ci troviamo a dover difendere in Parlamento, nelle aule dei tribunali e nelle piazze principi e valori che dovremmo considerare acquisiti. Siamo nel 2011 ma sembriamo ripiombati nel passato. Forse nemmeno al ’48 ma indietro di due secoli rispetto a quell'”eguaglianza formale” dello Statuto albertino (1848) e allo Stato di diritto dell’Ottocento.
Questo mese le piazze d’Italia si riempiranno di cittadini che sentono calpestata la propria dignità. Di donne che non accettano di essere rappresentate come oggetto di scambio sessuale. Di donne e di uomini che vorrebbero vivere in un paese normale e non esposto al pubblico ludribio internazionale per le gesta di un tirannello malato di narcisismo e superomismo che, invece di farsi curare, cerca di infettare la collettività. E’ per questo che il 5 marzo prossimo migliaia di italiani scenderanno in piazza, e saranno in tantier inondare la Capitale con le bandiere tricolori. Perchè la Costituzione è la d medicina contro un potere malato, l’unico antidoto contro il rischio di inesorabile imbarbarimento e rovina.