Premessa doverosa: alla maggioranza degli italiani, Michele Santoro non è simpatico né piace; la posizione politica e gli atteggiamenti di Santoro danno ragione al senatore Maurizio Gasparri quando dice che fino a quando ci saranno avversari come lui la destra sarà tranquilla di vincere sempre le elezioni. Ci sono però dei valori, in cui uno crede, che vanno difesi sempre, perché sono il dato di base di una democrazia. E poiché democrazia vuole dire libertà e anche benessere, contrapposti a oppressione e miseria, non bisogna mai perdere di vista quella stella polare, nemmeno in momenti di emergenza, anche se nazionale.
Il caso Santoro ha inizio quando Silvio Berlusconi, ha perso le staffe, contro la trasmissione “Anno zero”. Gli aveva passato la palla il presidente della Camera Gianfranco Fini, che aveva definito la trasmissione “semplicemente indecente”. Berlusconi aveva messo il sigillo: “La tv pubblica non puù comportarsi in questo modo”.
Colpa di Santoro: avere detto e fatto dire, con i toni che piacciono a molti e dispiacciono ai più, che la macchina dei soccorsi non ha funzionato come avrebbero voluto l’agiografia berlusconiana giornalistica televisiva e la retorica diffusa sul sacrificio e lo slancio generoso dei volontari.
Che in una catastrofe come quella abruzzese ci siano stati disguidi e intoppi non c’è da meravigliarsi, è più che naturale; né sorprende che ci sia chi si lamenta, specie dopo che ha perso la casa e tanti altri beni. D’altra parte ancora oggi c’è gente che preferisce stare nelle auto, perché nelle tende mancano parecchie cose, tra cui il riscaldamento. E questo è frutto della logica che poi è anche all’origine della irritazione del presidente del Consiglio. Avere puntato a una gestione d’immagine dell’emergenza, ha infatti determinato che l’azione di soccorso avesse come priorità il capoluogo, l’Aquila (questo non solo perché le tv erano tutte lì, ma anche perché nel capoluogo c’era la più alta concentrazione di terremotati).
Fin qui tutto naturale. E naturale e comprensibile è anche la reazione dei politici di maggioranza: se il terremoto è stato sciagura per svariate migliaia di persone, per Silvio Berlusconi è stato anche un’occasione per mandare agli italiani un preciso messaggio: per la prima volta nella storia nazionale una crisi come questa è gestita in modo “manageriale” e tutto è funzionato come un orologio svizzero, perché al timone c’era Lui. Questo, alla vigilia di una tornata elettorale dalla quale Berlusconi spera di uscire ancora più forte di quanto non sia già, era meglio di un’intera campagna elettorale.
Una voce dissenziente, che turbi il disegno idilliaco, è destinata a non piacere. Più che umano. Se poi il dissenso è manifestato col tono di Santoro, il fastidio è anche condivisibile.
Ma che quel fastidio sia manifestato pubblicamente da due delle più alte cariche dello Stato, questo non va bene, non è accettabile. Non possono, personaggi di quel livello, ignorare una delle regole cardine della democrazia: che ognuno possa dire quello che vuole, con una libertà che diventa assoluta quando oggetto delle critiche sono i soggetti della vita pubblica.
E il fatto che sia proprio la tv di Stato a ospitare un tipo di informazione come quello di Santoro, è coerente con l’impostazione democratica che ha la Rai: allo schieramento di maggioranza vanno due reti tv su tre, all’opposizione va la terza. Questo garantisce che la Rai rifletta, con una certa ampiezza, un largo spettro di opinioni, rappresentativo delle opinioni che in un dato momento sono espresse nel Paese. La lottizzazione da molti vista come un aspetto negativo della vita politica italiana, in questa prospettiva ne è invece un aspetto positivo, democratico, garantista.
La tesi di Berlusconi, che il servizio pubblico non possa mandare in onda programmi come quello di Santoro, perché non sono da servizio pubblico, è da respingere perché non democratica. Rappresenta una evoluzione, o involuzione, del pensiero politico nazionale, che non si può passare sotto silenzio: la Rai non sarebbe più espressione di tutti i o schieramenti, ma deve stare allineata al disegno superiore del Capo.
La tesi è particolarmente preoccupante perché viene da Berlusconi, la cui probabilità di conseguire la maggioranza assoluta dei voti in una delle prossime elezioni non è così campata in aria, tenuto conto che percorre un’autostrada asfaltata con cura negli anni passati da avversari della capacità autolesionistica di Romano Prodi, Pier Luigi Bersani, Vincenzo Visco, Tommaso Padoa Schioppa (quello che disse: “E’ bello pagare le tasse”), per nominarne solo alcuni).
E la cosa diventa ancor più preoccupante perché questo è il secondo attacco in una settimana ai mezzi di informazione non allineati da parte del capo del Governo.
Per essere giusti, non è che all’estero i politici amino l’informazione che non sia in ginocchio.
Ricordiamo il presidente francese Nicolas Sarkozy, che ha fatto licenziare il direttore di Paris Match perché ha nesso in copertina la foto della allora moglie, Cecilia, in compagnia dell’amante col quale era scappata in America. George Bush con i giornalisti proprio non ci parlava. Ma anche il democratico, di partito e speriamo anche di fatto, Barack Obama, sta ben attento a distinguere i giornalisti amici dai nemici.
Ma qui siamo in Italia, una democrazia ancora fragile, appena usciti e non nel migliore dei modi dal congelatore della guerra fredda, unico paese al mondo con un ordine dei giornalisti. Un paese in cui è ancora viva la memoria di un passato, che Fini a parole ha rinunciato ma con i suoi attuali comportamenti sembra rimpiangere.
Conforta che Sergio Zavoli, rimasto uno dei pochi che quel passato l’ha visto di persona, abbia detto: “Bisogna dar voce a istanze diverse”. Almeno lui.