“Vostra eccellenza, che mi sta in cagnesco | per que’ pochi scherzucci di dozzina, | e mi gabella per antitedesco | perché metto le birbe alla berlina”, scriveva Giuseppe Giusti in una famosa poesia nel 1849. La strofa è tornata attuale: la Germania è la birba che sfrutta il principio unanimistico che disciplina l’Unione europea per dire i suoi “no” insuperabili. “E’ Berlino che fa la legge” e tutti, anche i francesi, si sono ormai piegati. Del resto, ha scritto Eugenio Scalfari, “la Germania è il paese europeo più ricco, più produttivo, più innovativo dell’Unione”. Competitition is competition, si affermava con grande sicumera fino all’esplosione della bolla finanziaria e c’è ancora chi pensa, anche se con minore baldanza, alle magnifiche sorti e progressive. Il punto è che, anche aderendo a questo punto di vista, che non appartiene a chi scrive, visto che la competition ormai si esplica a livello globale, i singoli paesi europei, Germania compresa, sono solo dei piccoli nani. Mentre uno stato europeo avrebbe grandi potenzialità.
La Germania quindi sbaglia con la sua politica “ottusamente deflazionistica, ottusamente virtuosa, ottusamente manichea e quindi socialmente crudele”. L’errore è evidente nonché, nel medio periodo, anche autolesionistico. Ed il quesito principale è se sia possibile trovare una via d’uscita. Le ragioni della politica tedesca si spiegano inquadrandole nella sua storia, magistralmente tratteggiata da Marcello De Cecco nella presentazione del libro La voragine, di cui sono co-autore: l’azzeramento, per ben due volte, del valore della moneta nazionale, le imposizioni dei maniaci della sovranità, lo sforzo immane per la ricostruzione e lo sviluppo produttivo, la cultura quasi ossessiva del rigore.
Non era difficile prevedere che la Germania avrebbe teso ad applicare all’Europa lo stesso modello attuato per l’unificazione con l’est, che ha determinato il completo smantellamento e la ristrutturazione del sistema produttivo di quella parte del paese. Ma è anche evidente che tale processo è stato possibile perché è stato destinato ad esso un flusso ingente di risorse (cui hanno contribuito anche i paesi dell’Unione con i loro persistenti disavanzi delle rispettive bilance commerciali) ed era diretto verso una area culturalmente, in parte, e linguisticamente omogenea. Non può essere riproposto, con modalità simili, nell’intera Europa, che è, evidentemente, un insieme infinitamente più grande e complesso della Germania dell’Est.
Tutto ciò va analizzato, messo a fuoco, fatto proprio per ciò che di buono contiene (serietà nella gestione dei conti pubblici) e confutato negli errori: non si può ripetere al contrario, mutatis mutandis, lo scenario delineato profeticamente nel 1919 da John Maynard Keynes nelle “Conseguenze economiche della pace”. Su questo dovrebbero riflettere i 189 economisti tedeschi che hanno sottoscritto un appello diretto alla Cancelliera Merkel (http://www.euprogress.it/2011/03/il-fallimento-puo-essere-la-soluzione), in cui hanno paventato il fallimento degli stati in difficoltà come soluzione della crisi o il ministro Wolfgang Schauble, che suggerisce alla Grecia di sospendere la democrazia ed affidarsi ad un governo tecnocratico.
Anche i politici europei dovrebbero lavorare su questo terreno, per stimolare il dibattito tedesco e far prevalere le posizioni più lungimiranti. Non tutti in Germania la pensano nello stesso modo. E, soprattutto, vanno evitati i luoghi comuni, riecheggiati sulla stampa europea di questi mesi: i tedeschi non sono Sturmtruppen, come gli italiani non sono pizza e mandolino, gli spagnoli toreri e i francesi piccoli napoleoni.
Con la pazienza di Sisifo va rilanciato “il percorso che dovrebbe portarci alla nascita di un’Europa federale”: cessione di sovranità da parte degli stati, banca centrale prestatore di ultima istanza, debito europeo, istituzioni rafforzate, superamento del principio unanimistico e così via.
Il sentiero da percorrere è stretto e non prevede scorciatoie. Bisogna anche muoversi con una certa celerità perché la crisi produce debito pubblico e il rapporto tra questa voragine sempre più grande e le sovranità popolari rimane,come è stato scritto, “incerto ed inquietante”. Il pericolo è la divaricazione tra cittadini e creditori che, oltre un certo limite, “mette in discussione l’indipendenza dello Stato”. Le politiche dei governi devono riequilibrare il proprio baricentro: “rigorosissima nuova regolamentazione” del sistema finanziario, che ha prodotto l’aumento di oltre 20 punti del debito europeo, e contrasto delle disuguaglianze. Il coefficiente di Gini (dallo statistico italiano Corrado Gini: misura la diseguaglianza di una distribuzione) dei paesi europei ultimamente si è ingrassato troppo: è venuto il momento una robusta dieta.
