Riuscirà mai Achille a raggiungere la tartaruga? Oggi, con l’aiuto del calcolo infinitesimale, possiamo relegare al ruolo di semplice curiosità il paradosso di Zenone e dare così consistenza teorica ad un interrogativo che buon senso ed esperienza avevano già ampiamente demolito. Più difficile, e qui non ci sono ancora sistemi di calcolo capaci di venire in aiuto, prevedere se mai il sindacato riuscirà a raggiungere Sergio Marchionne per trovare finalmente confortevole alloggio tra le pareti della “Fabbrica Italia”.
Perché ogni volta che l’amministratore delegato del Lingotto sembra segnare un punto a suo favore nella partita volta ad ottenere quelle condizioni contrattuali ritenute prerequisiti irrinunciabili per deliberare gli investimenti, ecco che altri motivi di insoddisfazione compaiono per allontanare sempre più l’ambizioso obiettivo di raddoppiare la produzione sul territorio italiano.
Non basta che i giudici siano lesti a legittimare le newco ed il licenziamento dei tre operai di Melfi accusati di aver incrociato il percorso di un “robocarrier”, per far tornare il sorriso sulle labbra di Marchionne. Che alle sentenze, pur favorevoli, reagisce stizzito annunciando l’ennesimo congelamento di “Fabbrica Italia”. Viene da pensare che in realtà Marchionne non sia alla ricerca di vittorie schiaccianti sul sindacato ma piuttosto di sconfitte pilotate capaci di relegarlo nel ruolo di una vittima degna di compassione ed affetto. Solo pretesti per affossare un progetto il cui compito si è esaurito nel momento stesso in cui ne è stato dato l’annuncio. Una mossa politica e non industriale volta a guadagnare tempo e a diluire l’impatto di una sempre più evidente deriva della Fiat lontano dall’Italia.
Mentre politici e sindacati ammiravano estasiati le pagine pubblicitarie giocate sul territorio i monovolumi di fascia bassa passavano da Mirafiori alla Serbia ed il blocco degli investimenti dedicati al rinnovo della gamma Fiat andava a tutto vantaggio del finanziamento della operazione Chrysler. L’unico errore e stato forse quello di aver sovrastimato la reazione del sindacato e più in generale di quegli operai che a forza di referendum si erano schierati, sia pure spinti dalla necessità più che dalla convinzione, dalla sua parte. Certo non avevano dimostrato adesione entusiastica ma neanche il duro Marchionne avrebbe potuto prendere a pretesto i musi lunghi di chi era stato chiamato a scegliere tra lavoro e disoccupazione per annullare il trasferimento della nuova Panda a Pomigliano.
Perché non c’è dubbio che, almeno sul piano della efficienza produttiva, abbandonare lo stabilimento di Tichy, rinunciando così ai benefici di un costo del lavoro contenuto, componente essenziale per la competitività di un modello utilitario, è stato certamente un sacrificio non previsto. Perché il futuro di “Fabbrica Italia” è inevitabilmente segnato. Non tanto per un clima sindacale supposto ostile e per la mancata piena condivisione degli obiettivi da parte dei lavoratori ma piuttosto per la sua inconsistenza dal punto di vista industriale.
Ha senso progettare e costruire a Mirafiori un Suv Alfa Romeo-Chrysler destinato ad essere vendute negli Usa ed in Europa, quando la piattaforma del veicolo è derivata da un modello Chrysler? Se, come ripete fino alla noia Marchionne, la guerra dell’auto non consente sprechi ed inefficienze, meglio far viaggiare un motore Alfa Romeo dall’Italia all’America al Messico (bastano 40 dollari) che un veicolo intero. Lo si può fare per la Freemont ma solo per far fronte ad una carenza di modelli Fiat che sfiora ormai l’emergenza. E lo stesso discorso vale per la Bertone. La piccola Maserati ed il Suv sono modelli Chrysler (300 C e Jeep) equipaggiati con propulsori della marca del Tridente e di conseguenza la localizzazione produttiva a Torino è priva, almeno dal punto di vista delle convenienze industriali, di ogni logica. Tra un “congelamento” e l’altro aumenta progressivamente la divaricazione tra l’obiettivo di Fabbrica Italia (1.6 milioni di auto) e la realtà (650.000) al punto di autorizzare un certo scetticismo sulla reale possibilità di raggiungerlo.
Ma la sistematica dilazione degli investimenti autorizza anche una altra riflessione. Sergio Marchionne sembra l’unico manager mondiale a considerare il mercato come una variabile indipendente. Per lui non è la domanda che comanda ma l’offerta. E sull’offerta –sembra dire – decido solo io. E’ un po’ come un viaggiatore che salito sull’autobus al capolinea, con tutti i posti liberi ed a sua disposizione, preferisca per una qualche ragione restare in piedi. Durante la corsa l’autobus si riempe ed i posti vengono tutti occupati. Meno uno: quello del passeggero in piedi, in modo che, qualora lo desideri, possa accomodarsi. In realtà l’autobus si riempe e basta e chi è rimasto in piedi deve rassegnarsi ad essere spintonato da tutte le parti aggrappato come può ai sostegni condannato ad un precario equilibrio. Quell’autobus è il mercato europeo nel quale ogni nicchia è sovraffollata e dove non c’è posto per la cortesia ed il rispetto per gli anziani ed più deboli.
La Fiat produce in Italia per l’Europa ma le vendite sono in continua discesa. La gamma prodotto è ridotta ai minimi termini ed in questa situazione la “Fabbrica Italia” che dovrebbe produrre quei Suv che oggi sono i modelli più richiesti, è in perenne standby. Ma non tuto il male viene per nuocere perché così si può annunciare trionfalmente che gli stabilimenti della Chrysler producono in un solo mese quanto gli stabilimenti italiani in tre. Ignorando ancora una volta (era già avvenuto per quello che riguarda il confronto tra Tichy e Pomigliano) che questi sono frutto della combinazione tra l’efficienza delle linee produttive e la competitività del prodotto. Tutte queste cose, naturalmente, Marchionne le sa. Ed allora non resta che prendere atto di un progressivo ridimensionamento della Fiat in Europa dove ormai rimane spazio solo per la produzione di alta qualità e ad alto valore aggiunto. La concorrenza dei coreani e dei giapponesi nei segmenti inferiori rischia di rendere troppo costoso ed improduttivo difendere il territorio. Ed il successo della Giulietta che sembra più il frutto della necessità di mettere un po’ di carne intorno ad un osso che pare far gola a Volkswagen, è un ulteriore prova di questo stato di cose.