GENOVA – Resta altissima la tensione a Ventimiglia dove i profughi sono quasi mille, raccolti in un campo attrezzato che trasborda. Il capo della polizia, Franco Gabrielli, dopo la tragica morte dell’ispettore capo Diego Turra, ha annunciato che i migranti verranno trasferiti altrove per liberare Ventimiglia, oramai un piccola Calais italiana. I noborders giudicano questi trasferimenti come deportazioni. Intanto a Albenga si sono celebrati i funerali del poliziotto Diego Turra, caduto durante le manifestazioni e stroncato da un infarto. Una storia pasoliniana.
Guardano in basso gli occhi della guardia d’onore che fa il presentat arm, con i mitra spianati alla bara di legno chiaro di Diego Turra, il poliziotto di 53 anni, ispettore capo del reparto mobile di Genova, caduto sul fronte di Ventimiglia, assediata dai profughi respinti dalla frontiera francese e dai no borders che manifestavano. Sono impettiti e induriti dalla posa militare i colleghi di quel poliziotto- guerriero, crollato al suolo nella canicola di quella frontiera, addosso la divisa, con il giubbotto anti proiettile, la giacca d’ordinanza, il mitra imbracciato, il cinturone, la pistola, il basco calcato sulla testa, la temperatura a più di trentacinque gradi, le urla dei no borders a pochi metri, il muro dei profughi, dei disperati schiacciati tra quei mitra, il confine francese chiuso, la tendopoli del campo attrezzato dalla Croce Rossa, sul greto del fiume Roja, sotto il grande ponte dell’autostrada, gli occhi puntati di mezza Italia su questa possibile Calais italiana, in questo angolo di Paradiso del confine di san Luigi, la dolce Riviera, la “porta fiorita” d’Italia, le agavi, i cactus, i pini marittimi del valico di Ponte San Luigi e ora questo muro tirato su dai conflitti tra gli uomini, dalle invasioni, dai flussi migratori incontrollabili come un’onda che non si ferma.
Sta avvolta in un grande tricolore la bara di legno chiaro del sovraintendente capo, un collega la precede con un cuscino, sopra il suo capello d’ordinanza e la medaglia al valore, nella sua lenta marcia funebre verso il portale della Cattedrale di Albenga, un gioiello romanico che è intitolata a San Michele Arcangelo, guarda che coincidenza, il protettore della Polizia e, quindi, anche di lui, Diego che a Albenga abitava con la moglie con le sue sue figlie e che mai avrebbe pensato di entrare nella sua cattedrale in questo modo con gli onori i militari, i reparti schierati, il capo della polizia, Franco Gabrielli, alto e silenzioso sulla porta, i sindaci, gli onorevoli, come l’immancabile Borghezio della Lega Nord, i gonfaloni e tanti colleghi, un reggimento di colleghi dentro la chiesa, fuori dalla chiesa.
Nella divisa d’ordinanza, ma anche in borghese, con lo sguardo fiero, ma anche con l’aria dura di chi fa il suo servizio fino in fondo, fino alla morte e alla fine gli suonano il silenzio d’ordinanza e sbattono i tacchi degli anfibi lucidati per la cerimonia, qualche occhio che stenta a asciugare le lacrime e la domanda se non è troppo alto questo prezzo pagato da Diego, padre di famiglia, cinquantenne, poliziotto da una vita, mandato in prima linea, che quella era proprio una prima linea, alla sua età, a sette euro all’ora, dentro a un possibile scontro biblico, i profughi, la frontiera francese che respinge, i profughi a centinaia con i piedi scalzi, i teli della Protezione civile quando non ci sono vestiti, i lineamenti sul viso di una Torre di Babele di migranti, senza documenti, senza papiers, rimbalzati qua da ogni angolo del mondo in fuga, con quegli occhi disperati, ma decisi a passare.
Guardano, invece, ancora in basso gli occhi del picchetto, per non guardare troppo quella bara del sacrificio del loro collega caduto, per mantenere la posizione rigida che il regolamento del soldato, in questo caso del celerino, richiede.
E immaginano, i celerini che stanno impettiti dentro e fuori la chiesa, l’incontro tra questo collega caduto e la sacra funzione che sta per incominciare con le autorità schierate, la moglie di Diego affranta, le figlie disperate sotto l’altare, i comandanti , tutti i comandanti della Polizia accorsi in questo angolo della Liguria, in questa cattedrale austera e parata a lutto.
Vedono la bara, sorretta sulle spalle dei commilitoni che meglio lo avevano conosciuto, entrare dal portone, scendere la scalinata che introduce alla navata centrale, sfilare verso l’altare dove il vescovo di Albenga Gabriele Borghetti aspetta, con la mitra ben calzata in testa, e gli altri preti della cerimonia fanno da corona con le vesti viola del lutto. E pensano alla preghiera che è stata scritta, immaginando “La Celere davanti a Dio” e che uno di questi soldati poliziotti consegna al cronista di Blitzquotidiano “per far capire meglio qual è il loro spirito in questo momento di dolore”:
“Si fece silenzio intorno al trono dove di solito si affollano i santi perchè anche loro davanti alle parole del celerino si sono immedesimati in lui, assaporandone i suoi dolori e i pensieri, i dubbi e le angosce, le paure e le cicatrici, mentre il celerino restava dritto, impeccabile, a testa alta ed in silenzio, aspettando il giudizio del suo Dio. Quando lui lo guardò con gli occhi di un padre e gli disse: “Vieni ed entra, hai portato bene i tuoi fardelli, anche se erano troppo grandi per te, ora cammina in pace per le vie del Paradiso, all’Inferno ci sei stato abbastanza”, dice la preghiera.
E sembra scritta per Diego Turra che è caduto proprio sotto quei fardelli, in quell’inferno del terzo Millennio, che aveva quelle cicatrici e che viene ricordato nell’omelia del vescovo e poi nelle parole, rotte dal pianto, delle figlie, come un soldato che ha fatto il suo dovere e che soffriva, alla sua età dopo tanti servizi, lo stress, la stanchezza , la fatica del proprio compito portato fino in fondo, un giorno di agosto sotto il sole che brucia, le armi addosso che non vorresti usare, i gas lacrimogeni nell’aria, le urla dei no borders, il silenzio spaventato, ma non rassegnato dei profughi, gli scudi anti guerriglia in pugno, il rumore dei passi cadenzati. Troppo, troppo stress, troppa fatica per Diego che il giorno prima si era fermato tra i profughi, in tutta la sua imponenza di uomo in divisa, pronto allo scontro, ma con il sorriso in faccia, sotto il casco legato con il sottogola, e ad uno di questi, che si reggeva a stento, aveva pagato una minestra: “L’ho fatto perchè mi sembrava che proprio non ce la facesse più…..”, aveva spiegato dopo. E aveva tirato fuori i soldi dalla tasca e aveva soccorso il migrante e questo gesto chissà come sarebbe piaciuto a Francesco il papa della misericordia che ammonisce: “Ricordati che quando il Signore ti giudicherà, penserai a quel fratello che ti ha chiesto aiuto, che moriva di fame e moriva di sete e tu lo hai aiutato. Quel fratello sono io!”.
Chissà, certo non avrà pensato a quella frase Diego e neppure avrà pensato alla misericordia, quando il giorno dopo aveva scherzato con i ragazzi no borders che poi, inquadrato nel suo reparto, gli scudi alzati, l’ elmo calato, avrebbe affrontato..
Diego era così, spontaneo, aperto, facevo il suo mestiere duro di celerino con quello spirito, lo aveva sempre fatto così, servizio pubblico, servizio per la gente: “La sua morte ci lascia un messaggio – dice dal pulpito il vescovo, usando la lettura della messa funebre con le parole del Profeta Daniele – tenetevi pronti con la cintura legata ai fianchi e le lanterne accese, concentrati “sul pezzo”, che il Signore può arrivare in qualsiasi momento.”
Non c’entra niente la morte dell’ispettore Turra con la manifestazione dei noborders, dirà dopo la tragedi il capo della Polizia, smentendo le tensioni che quella morte poteva scatenare nella polveriera di Ventimiglia, che il Governo ha scoperto con tanto ritardo.
Turra faceva il suo dovere, faceva un servizio che forse alla sua età non gli sarebbe dovuto toccare più. Ma era “sul pezzo” con quella divisa di piombo addosso nell’estate infuocata delle migrazioni e delle contestazioni.
Vengono in mente i versi di Pier Paolo Pasolini, quando in pieno Sessantotto si mise dalla parte dei poliziotti che affrontavano i contestatori nelle piazze e nelle strade e c’erano scontri duri e sanguinosi. E quel poeta-scrittore-regista celebrò il ruolo di quei figli del popolo, ragazzi in divisa mandati in piazza contro altri ragazzi, in un celebre articolo de “Il Corriere della Sera”.
Più di quaranta anni dopo Diego Turra non era un ragazzo, ma era un poliziotto-celerino mandato a fare il suo dovere contro ragazzi in uno scontro tanto grande che non ne comprendiamo la dimensione.
Quando la bara esce dalla cattedrale nel silenzio assoluto, il celerino ha incontrato il suo Dio, come vuole la preghiera e va in pace, lasciando dietro lo strazio umano. La moglie rompe quel silenzio con un pianto continuo, sommesso, gettata sulla cassa piena di fiori: “ Non è giusto, non è giusto, perchè te ne sei andato?” Il picchetto d’onore sta inchiodato con i mitra in pugno, rende ancora gli onori al compagno che se ne va.
Sessanta chilometri più in là i migranti stanno ancora schiacciati tra il campo, la frontiera francese sigillata, e i caschi dei commilitoni di Diego, che luccicano al sole nella canicola. Come quando lui è caduto.