Don Andrea Gallo, i funerali: prete degli ultimi o “rock star”?

Don Andrea Gallo con Maurizio Landini (foto Lapresse)

GENOVA – Prete da strada, prete da marciapiede, prete degli ultimi, prete comunista, prete delle prostitute, dei trans, di tutti i deboli, prete genoano, prete degli sconosciuti ma anche dei famosi, dei celebri, prete superstar, prete senza confini.

Intorno a don Andrea Gallo, che se ne è andato a 85 anni, un mercoledì pomeriggio di maggio a Genova, tra soffi di maestrale e un raro sole, stanno costruendo una specie di monumento che lui non avrebbe gradito e che probabilmente gli avrebbe fatto alzare quella mano con le dita ossute in un gesto di distanza, con un po’ di ironia e un po’ di allegria scaramantica.

Non aveva neppure accettato di guardare del tutto in faccia la malattia che lo stava portando via, dimagrendolo, rendendolo fragile come non mai e in contrasto alla sua vigoria di cuore, un tumore ai polmoni. E ci credo con quel sigaro sempre in bocca, che lui diceva lo aiutasse anche a pregare!

Andrea, “Il Gallo” o il “Vecio”, come lo chiamavano i suoi ragazzi, aveva sempre da fare, con quel capello in testa, un po’ un basco, un po’ un colbacco, un po’ a larghe tese, e, comunque, in una divisa sempre da prete, magari sgargiante, come nelle cerimonie liturgiche, ma mai equivocabile dal suo mestiere: il prete.

Quel male che lo ha strappato via dalla sua Comunità di san Benedetto al Porto, fondata nel 1970 e che lo ha trasformato nei decenni da semplice prete con le sue idee “forti” e di libertà, comunista come dicevano i suoi nemici, in un volontario delle frontiere più difficili della società moderna: la droga, ma anche le altre dipendenze dall’alcool, dall’usura, dal gioco, dalle macchinette (l’ultima sua battaglia), il dilagare della prostituzione, la carne in vendita delle donne immigrate e poi i trans.

Era un cuore grande quello che si è fermato praticamente nelle mani di un altro “santo” genovese, il medico Franco Henriquet, colui che accompagna a morire, attutendo le sofferenze dei mali cattivi. “Il cuore resiste, ma fatica a respirare”_ aveva detto quel medico, poche ore prima della morte che la città di Genova e un po’ tutta l’Italia hanno annunciato come se fosse già avvenuta. I giornali di Genova, “Il Secolo XIX” e l’edizione ligure di “Repubblica”, hanno cominciato a scrivergli il coccodrillo due giorni prima.

Inevitabile che avvenisse, perché la grande spinta del cuore di Don Gallo lo aveva trasformato, nella velocità della comunicazione moderna in una specie di icona, prima una star televisiva e poi l’eroe del web, moltiplicato per milioni e milioni dai social network. Per fortuna lui, il prete contestatore, polemico, politicizzato al punto da scegliere e lanciare l’ultimo sindaco di Genova, il marchese “rosso” Marco Doria, ( che senza di lui ora avrà i suoi guai), era di carne e ossa e sangue e idee forti e faccia da mettere sempre davanti. Ma non era mai uno “contro” la sua Chiesa, uno che avesse veramente sfondato quelle gerarchie ecclesiastiche, secondo i facili biografi di oggi in attesa da sempre non di altro che di farne un boccone.

Andava perfino d’accordo con il cardinale principe Giuseppe Siri, che lo accolse, da salesiano pentito per le regole troppo rigide dell’Ordine di Don Bosco, nel gregge secolare di Genova, mandandolo, tanto per incominciare il suo servizio, a fare il Cappellano del carcere della Capraia, isola toscana che cadeva sotto la Curia genovese, eredità delle Repubbliche marinare. Siri lo “marcava”, lo mandava a controllare dai suoi monsignori, mentre predicava nella Chiesa del Carmine dove dopo la Capraia era diventato vice parroco.

Gli inviati di Siri prendevano appunti sulle sue omelie infuocate, che sparavano a zero sulle falsità e i sepolcri imbiancati che censuravano chi prendeva la droga, ma non si accorgevano delle altre “droghe” propinate ai giovani da una società consumistica e materialista che non si accorgeva dei poveri, dei deboli. Ma poi Siri, più che rimandarlo alla Capraia non aveva fatto, suscitando con quella “punizione” la reazione che avrebbe fatto, all’alba degli anni Settanta, di Don Gallo, quello che poi è diventato e che ora urla nei titoli dei giornali e delle trasmissioni tv: il prete degli ultimi.

Fu quella mossa della Capraia a spingere don Andrea in quella piccola chiesa insignificante, all’ombra del Palazzo del Principe, San Benedetto del Porto, dove un parroco generoso e silenzioso, don Federico Rebora, che ora piange sulla sua bara, lo accolse, come si accoglie un senza tetto.

Andavi in quegli anni complicati in quella chiesa e scoprivi che piano piano “Il Gallo” la stava trasformando in un colossale centro di ascolto dei disagi sopratutto dei giovani: chi stava male andava lì a parlare con quei due preti che sembravano in periferia e invece stavano nel cuore pulsante delle sofferenze sociali. Neppure don Gallo avrebbe immaginato come la frontiera si sarebbe allargata e come lui, da un fronte diverso sarebbe diventato l’argine contro la tossicodipendenza insieme a un’altra grande donna genovese, Bianca Bozzo Costa, della grande e celebre famiglia di armatori.

Un prete da battaglia e da marciapiede e una signora genovese della borghesia cattolica e solidale misero su le loro comunità diverse, immensamente diverse, nella metodologia, nell’educazione, nell’accoglienza, ma simili nell’affrontare una emergenza che passava dalle fumisterie dell’ hashish, ai buchi di eroina e poi a tutto il resto, in un sussulto sempre più transgenerazionale e interclassista.

Bisogna dirlo e scriverlo: quel modo di don Gallo di stare su quella frontiera e sulle altre, che si sarebbe scelto, fece anche scandalo e irrigidì una parte della città, anche quella parte borghese e ultracattolica che sentiva l’imprinting di Siri e dei suoi preti, dai quali si aspettava fulmini, saette e scomuniche per quel ex salesiano che spesso usava un linguaggio da portuale, che brandiva il vangelo come una spada e lo traduceva per la strada, nei buchi neri della società, tra gli avanzi da galera e i derelitti di ogni vizio e perdizione, in un linguaggio di speranza.

Quella era la sua strada, ma non era facile capirla, mentre la città intorno cambiava e veniva divorata dalla crisi più grande che una ex Superba poteva affrontare, tra post fordismo (se mai Genova è stata fordista), postcomunismo, ma con i suoi apparitikit tutti ancora in fila e convertiti nelle nuove declinazioni partitiche, sindacali, burocratiche, post Iri e PPSS, post armatoriale (che i padroni del vapore si sono dissolti), aggredita dal terrorismo, che spuntava proprio lì in quelle fabbriche, in quelle banchine del superporto pubblico tra vecchi album di famiglia e slogan pericolosi, come “Non con lo Stato, non con le Br”.

Immaginarsi un prete che scende sul marciapiede in quelle condizioni.

Dove stava don Gallo? Non certo solo nelle sue Comunità, che crescevano e si moltiplicavano e chissà quante vite hanno salvato e affrontavano via via, a partire dagli anni Settanta, le emergenze in sequela della società post boom.

Ora è molto facile semplificare, mentre perfino il presidente Giorgio Napolitano manda messaggi di cordoglio e non c’è chi si tiri indietro, nemmeno uno come Flavio Briatore la top macchietta di Maurizio Crozza in Tv che si sporge a dire che “Don Gallo era uno di noi.”

Andrea se glielo avesse detto in faccia lo avrebbe scherzosamente strozzato. Che ci azzecca il prete degli ultimi, come continuano a titolare in un riflesso pavloviano tutti i giornali, i tg, e il re del top del top?

Don Andrea Gallo è rimasto sulla sua frontiera del marciapiede, molto più amato dai laici, che dai cattolici come tanti preti come lui, don Ciotti, don Mazzi, bollato come comunista da tutto il fronte cattolico ortodosso che non ha mai potuto accettare che lui accettasse l’aborto, benedicesse le unioni tra gay, accettasse il divorzio, si mescolasse con i trans e le prostitute di ogni risma e si intrufolasse nei giochi politici, diventando il vero leder della sinistra genovese, fatta di separati in casa. Lui ha “freddato” la ex sindaco Marta Vincenzi dopo l’alluvione-disastri, lui ha “investito” il marchese Marco Doria con il suo imprinting.

Sapeva benissimo, come ha scritto proprio don Mazzi sul “Corriere della Sera” che la sua vita tumultuosa di prete non avrebbe fatto sprecare molto inchiostro ai teologi, ai preti in marsina, ai vescovi-intellettuali della Santa Romana Chiesa. Sarà cosi: Gallo non è un caso teologico-filosofico, semmai è un tema sociale e politico.

Ma restando in mezzo a quel marciapiede, sviluppando quella capacità di accogliere e quindi di mediare, di fare fronte, di essere sempre presente sulle barricate della società in disfacimento, don Gallo è diventato non più solo il prete degli ultimi, ma anche il grande referente civile e sociale della società in dissolvenza dei partiti e delle etica pubblica. E così non solo Comunità antidroga, ma anche pace e guerra, lavoro e disoccupazione, movimenti di repressione e movimenti di liberazione e così, ecco il G8 del 2001, proprio nella sua Genova dalla parte dei no global, dei clandestini, a cantare con Manu Chao e prima ancora sempre con il suo Vangelo, quello di Fabrizio De Andrè, il cantautore.

Faber, con il suo vangelo antesignano, perfino delle battaglie di Gallo, era stato la sponda ideale per il prete da marciapiede. Perché, Bocca di Rosa a che stirpe apparteneva, se non a quella del marciapiede di Don Gallo nei carruggi genovesi?

E la “Guerra di Piero”, celebre canzone di Fabrizio, non era la stessa che portava sempre il Gallo a schierarsi con i movimenti pacifisti del No Dal Molin in Veneto contro lebasi Usa sul nostro territorio?

Certo Don Gallo, si è sovraesposto, per carattere suo, ma anche perché ce lo hanno spinto, inglobandolo, chiamandolo a raccolta, consultandolo, invocando sempre il suo sigaro spento, il suo cappellaccio nero ovunque.

E non gli facevano da argine neppure i cardinali big che si sono succeduti a Genova dopo Siri, con il quale, in qualche modo, si prendevano anche reciprocamente in giro. Giovanni Canestri, il successore di Siri allargava le sue tolleranti braccia di pastore, venuto dopo “il principe”, Dionigi Tettamanzi era ecumenico e tollerante, Tarcisio Bertone, quello che avrebbe potuto fulminarlo era, perbacco, un salesiano, suo vecchio compagno di seminario a Ivrea e quindi……

E alla fine Angelo Bagnasco, il cardinale di oggi che celebra i suoi funerali, che poteva fare da ex collega di quel prete che quando lui era un compito curato nel quartiere vip di Albaro, incendiava il Carmine, il quartiere cerniera tra i carruggi e la Castelletto dei cattolici borghesi, dove avrebbe seminato tra i primi le dissidenze e le obiezioni, mentre si radunava a Roma il Concilio Vaticano II del suo papa preferito, Giovanni XXIII.

Certo, don Gallo ci ha preso gusto a non risparmiarsi, a cantare “Bella ciao”, a mettersi il fazzoletto rosso al collo, a schierarsi con il capo dei camalli, il leggendario Paride Batini, di cui celebrò poi i funerali nella Sala Chiamata, con una cerimonia epica, il crocefisso alzato come una spada, insieme ai ritratti di Lenin, Gramsci e Guido Rossa, che stanno sulle pareti di san Benigno in porto, la casa dei portuali, non lontano da san Benedetto.

No, Andrea Gallo non era una rock star a gettone dei tempi moderni, un king maker della politica senza più ideologie e partiti. Era , è rimasto, un don, un prete con i suoi peccati, i suoi errori e i suoi slanci e la sua infinita capacità di mediazione.

Mentre la sua bara entra nella Chiesa del Carmine mezza città piange, l’altra cerca di guardare altrove e magari si lamenta per l’altisonanza di questa morte e di queste celebrazioni, senza accorgersi che Genova, oramai, sembra dare il meglio della sua partecipazione quando si celebra un funerale. Meditate genovesi, meditate.

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fmanzitti