Quando la presidente della seconda sezione penale della Corte d’Appello di Genova, Maria Rosaria D’Angelo, una signora bionda e dall’aria gentile, nel primo pomeriggio del 17 giugno, ha letto il verdetto del processo contro Gianni De Gennaro, ex capo della polizia, oggi grande riorganizzatore del sistema dei servizi segreti, il gelo è calato nell’aula. Condannato per falsa testimonianza a 16 mesi di carcere il poliziotto più famoso d’Italia, condannato a 14 mesi per lo stesso reato, anche Spartaco Mortola l’ex capo della Digos genovese, oggi questore vicario di Torino. Hanno mentito tutti e due, secondo i giudici d’appello, quando hanno spiegato di non avere esercitato pressioni sull’ex questore di Genova Francesco Colucci perchè modificasse la sua versione sulla sciagurata irruzione della polizia nella scuola Armando Diaz, nella notte di tregenda del 21 luglio 2001.
Li avevano assolti, li hanno condannati a quasi nove anni di distanza da quel luglio che marchiò il G8 genovese di sangue e violenze, come quello di due anni fa all’Aquila è marchiato di tangenti e corruzione. E in una rapida sequenza sembra improvvisamente che tutta la verità giudiziaria su quei giorni amari per Genova e pesanti per la Repubblica italiana e per l’allora giovane governo Berlusconi si stia capovolgendo, sentenze definitive di Cassazione a parte.
Il 5 marzo scorso la Corte condanna 30 imputati tra i quali medici carcerari, agenti penitenziari, forze di polizia per le violenze commesse dentro alla caserma di Bolzaneto, l’altro luogo degli orrori del G8 genovese, capovolgendo un verdetto che ne aveva assolti molti e fatto gridare allo scandalo. Poi il 19 maggio arriva la seconda sorpresa nel processo bis per i fatti della scuola Diaz, con un rosario di condanne a quei vertici della polizia di Stato che potevano essere considerati “gli intoccabili”: Francesco Gratteri, ex capo dell’Anticrimine, 4 anni, Vincenzo Canterini, capo del famoso Reparto Celere di Roma, 5 anni, Giovanni Luperi, vice capo dell’Ucigos, 4 anni, Spartaco Mortola, di nuovo l’ex capo della Digos, 3 anni e 8 mesi; Gilberto Calderozzi, vice dello Sco, 3 anni come Pietro Troiani e Michele Burgio, gli alti funzionari che “coprirono” il trasporto delle famose bombe molotov nella scuola , piazzate lì dalla Ps per accusare i dimostranti di avere a disposizione un arsenale, la prova più clamorosa e falsa.
E così nella fredda fine primavera del 2010 i processi del G8 sfornano un’altra verità giudiziaria, dopo quella che era lentamente emersa dal primo grado di giudizio per tre dei fatti gravi che avevano segnato quel G8?
La dura reazione dei condannati “capovolti” e dei loro avvocati, la decisione del Governo di non modificare uno solo dei delicati ruoli ricoperti dagli alti poliziotti, in attesa del terzo e definitivo processo, congela ancora una volta quella verità su quanto è successo a Genova tra il 19 e il 21 luglio del 2001. La verità giuiziaria fa le capriole tra il primo processo e il secondo, anche se almeno altri tre processi penali sembrano oramai avere scolpito le loro sentenze nella pietra.
Si allude ai famosi “fatti di strada”, le violenze dei blak blok contro persone e cose, agli incendi, le distruzioni, al terrore seminato da un capo all’altra di quella Genova sigillata tra zona rossa e zona gialla, per i quali la condanna riguarda un numero esiguo di imputati, individuati dopo indagini certosine, attraverso migliaia di foto e di filmati. Uno sforzo enorme di magistrati come Anna Canepa, pm oggi in forza alla Dia di Roma, per incastrare poche decine di responsabili, condannati a una pena massima di 9 anni.
Si allude anche al processo-principe dei fatti di Genova, quello per la morte di Carlo Giuliani, ucciso in piazza Alimonda dalla pallottola del carabiniere ausiliario Michele Placanica, mentre assaltava con un estintore il suo Defender. Accusa archiviata, processo sepolto, verità rimasta annegata in quel magma caotico degli scontri tra i ragazzi del G8 armati del passamontagna e di quelllo che racattavano per strada, come l’estintore di Giuliani e drappelli di carabinieri inesperti, mandati a fronteggiare i cortei, quando i professionisti dell’ordine pubblico, come i militari del leggendario battaglione Tuscania sbagliavano direzione e venivano fatti marciare dalle direttive via radio della Questura in zone lontane dagli scontri.
Si allude, volendo, anche al processo mai celebrato, quello per le “violenze di strada” commesse dalla polizia durante i cortei ufficiali, spesso contro cittadini inermi, come i pacifisti della rete Lilliput nella tranquilla piazza Manin o come le famiglie che sfilavano in Corso Italia, per le quali sono state presentate quasi 2000 denuncie con tanto di referti stilati da medici di Pronto Soccorsi e per le quali nessuno ha mai proceduto. Secondo una ricostruzione storica approfondita, in Italia non era mai stata commessa da forze dell’Ordine contro tanti manifestanti un’azione di violenza così diffusa. A parte le cannonate e i morti, neppure il generale Bava Beccaris aveva ordinato di colpire tanti cittadini.
Se una verità giudiziaria è in parte emersa e in parte si sta capovolgendo rispetto ai suoi esiti processuali, scavalcando i rischi della prescrizione, è la verità politica che non è mai stata ricercata. E oggi la “caduta” del ministro dell’Interno dell’epoca, il ligure Claudio Scajola, guarda caso azzoppato da uno scandalo che “pesca” indirettamente in un altro G8, accentua il mancato approfondimento. Chi diede quegli ordini alla polizia e ai carabinieri, chi comandò di caricare e di picchiare, chi permise che in caserme come a Bolzaneto si usassero violenze sui prigionieri fino a imporre ai ragazzi trasportati in caserma di stare in piedi o in ginocchio per ore e ore, chi instaurò un clima per il quale via radio la centrale della Questura raccomandava di “pestare le zecche”, alludendo ai dimostranti? C’era la necessità di fermare i blak bloc che erano riusciti ad arrivare a Genova per quei giorni fatali e quindi era passata una linea dura, approvata dal Governo, coordinata dal ministro e eseguita dal capo della Polizia?
Lo strumento per chiarire tutto questo sarebbe stata una Commissione d’inchiesta parlamentare, richiesta dalle forze politiche di opposizione e mai concessa, neppure quando il Governo fu conquistato da Prodi che pure aveva messo nel suo programma gli accertamenti politici sui fatti di Genova, oggi impalliditi con il tempo, ma allora, tra il 2003 e il 2005 di attualità.
Le tre sentenze giudiziarie, capovolte oggi dalla Corte d’Appello, tra il marzo e il 17 giugno, spingono avanti oramai solo retoricamente quella vecchia richiesta , definitivamente affossata. Non sapremo mai perchè polizia e carabinieri marciavano per le strade genovesi, battendo gli scudi con i manganelli, mutuando i sistemi intimidatori della polizia di Pinochet e soprattutto non sapremo mai perchè, nei giorni caldi del G8 genovese, Gianfranco Fini, allora ministro della Difesa se ne stava nella centrale dei carabinieri di Forte san Giuliano a seguire gli avvenimenti e non sapremo perchè il ministro della Giustizia dell’epoca, il leghista Roberto Castelli fece una visita di solidarietà, nella notte tra il 20 e il 21 luglio alla caserma di Bolzaneto, per verificare che tutto andasse bene. Chi ha sempre taciuto, come l’ex ministro Scajola, continuerà a farlo, chi è stato condannato recentemente dopo essere stato assolto come l’ex capo della Polizia De Gennaro, continuerà a difendersi dalle accuse che lo riguardano personalmente, lasciando sigillata la verità che riguarda tutti.