Hanno firmato l’invito al Doria un sociologo statistico di grande prestigio e autorevolezza come Paolo Arvati, un grande prof di storia dell’Arte, ex Pci, assessore e oggi nel cda del teatro Carlo Felice, Silvio Ferrari, il segretario generale SPI-CGIL del sindacato dei pensionati Walter Fabiocchi, uno degli avvocati più noti della città dalle profonde tradizioni forensi e da uno splendente passato di grande atleta della pallanuoto olimpica e mondiale Alessandro Ghibellini, l’ex sovraintendente ai beni artistici, una sorta di zarina genovese, Giovanna Rotondi Terminiello e l’assessore che più fece a Genova per strutturare un sistema di assistenza sociale, Marco Calbi. Insomma, una base di lancio di grande autorevolezza che ha già suscitato un consenso anche nel Pd e una ondata, proprio di quelle che provocano i transatlantici, sulle concorrenti già schierate sul campo di regata.
Non è il caso di farla lunga, come ha scritto Marco Peschiera, su “Il Secolo XIX”, con le doti del bis bis bis bis trisavolo di Marco Doria, il Principe dalle grandi doti di condottiero e governante della Superba. Né serve molto risalire al 1708 quando nacque Giorgio Doria, futuro cardinale o ai tre senatori, un altro Giorgio e poi Giacomo e Ambrogio, che la famiglia diede nell’Ottocento al Regno d’Italia.
Basta solo arrivare a Giorgio, al padre di Marco, solo per un pelo mancato di sindaco nel 1971, quando dopo estenuanti voti in consiglio comunale, il marchese rosso fu superato da Giancarlo Piombino, democristiano, “figlio” di Paolo Emilio Taviani e una delle persone più oneste e per bene che la storia italiana abbia conosciuto.
Nella storia recente, i Doria nella politica fieramente di sinistra e comunista entrano qualche anno dopo a livello istituzionale, quando Giorgio diventa vicesindaco di Fulvio Cerofolini, il sindaco tranviere, socialista lombardiano, nella prima giunta rossa del 1975.
Una accoppiata impossibile, il sindaco-tranviere e il vice sindaco-marchese rosso. Tanto è vero che Doria lascia presto quel ruolo, dopo avere, tra l’altro, imposto la cancellazione delle auto blu dal parco comunale (e siamo nel 1976…), resta solidamente a sinistra e si dedica allo studio.
Marco Doria assomiglia non solo fisicamente a suo padre, Giorgio, che era serio, sobrio, freddo, cosciente di avere fatto salire uno dei nomi e dei quarti di nobiltà più mitici nella storia genovese sul carro di san Francesco, rinunciando a diventare un grande possidente, l’amministratore di beni e proprietà secolari, mantenendo solo quello splendido palazzo in via Garibaldi 6, la strada dei re.
Ma oggi il mondo è diverso, la politica è un’altra cosa e il transatlantico dei Doria è uscito di nuovo in mare aperto, anche molto inatteso. Si può dire che la sfida lanciata, e anche spiegata in una lunga intervista sempre a “Il Secolo XIX”, è frontale e rispettosa.
Frontale perchè attacca la tradizione continua e un po’ piatta della sinistra genovese, incarnata dalla Vincenzi e dalla Pinotti, figlie di diverse generazioni della stessa matrice politica, ma cresciute nello stesso brodo politico del Ponente genovese, da Sampierdarena a Voltri con dentro la valle ex operaia del Polcevera, l’enclave dove il Pci -Pds – Ds e oggi in parte anche il Pd, ha conquistato il suo consenso permanente vittorioso: le fabbriche, il porto, o meglio i porti.
Non che Marco Doria sia espresso politicamente da un altro mondo, se no dietro di lui non ci sarebbero non solo quelle teste fini dei suoi promotori, ma anche il popolo della sinistra più radicale, il Sel, Sinistra e Libertà, le frange dure dei camalli e del mondo operaio che non molla e non è felice quando Marta Vincenzi, in uno dei suoi slanci “moderni”, annuncia: “Io non mi sento più comunista”.
Ma questo cinquantaquattrenne, già stagista all’Archivio Storico dell’Ansaldo (la Fiat di Genova degli anni millenovecento dieci, venti, trenta, quaranta), poi insegnante in un istituto tecnico professionale, infine professore associato alla facoltà di Economia e Commercio di Genova e oggi professore ordinario di Economia politica, ha sicuramente una storia e anche una geografia diversa.
Nato e cresciuto in altri quartieri della città, tra la borghesissima Albaro, il centro dell’Università e della mitica via Garibaldi, border line di Castelletto, l’area della città alta così cara politicamente ai Pd “lib-lab” e a una borghesia illuminata, spesso anche un po’ snob, il nuovo candidato gioca un po’ come un derby con le sue concorrenti, anche se il suo cognome lo avvicina alla fede sportiva più propria di chi vive nei quartieri di Ponente, la Sampdoria per l’appunto, nata dall’incestuoso connubio, come anche Juventus, Inter e Lazio, di una squadra di fuori porta (la Sampierdarenese) e una società sportiva di nobili, l’Andrea Doria, si dà il caso nello specifico genovese.
Un derby tra un fronte di Levante e uno di Ponente della città, storicamente avvitata nelle sue diverse enclave, nei suoi muri contrapposti che il crollo delle ideologie non ha affatto del tutto spianato, anzi?
Forse questo tipo di contrapposizione Levante-centro-Ponente piacerebbe al condottiero-avo Andrea, che sapeva muovere la sua flotta e le sue decisioni su uno scacchiere in cui il mare e i venti dettavano spesso le scelte di spostamento per una città che aveva nemici interni ed esterni.
Sicuramente Marco Doria ha fiutato bene il vento, se scendendo in campo ha subito chiarito che la sua sfida è alla Casta, alla politica politicante e alla non politica dei grillini, figli anch’essi di un genovese, Beppe Grillo, che fiuta il suo vento dalle alture di sant’Ilario, collina paradisiaca sopra la residenziale Nervi, in faccia a Portofino, con il Ponente sfumeggiante all’orizzonte estremo.
Confini ben tracciati, insieme a un programma iniziale secco e preciso quasi quanto il profilo dei suoi promotori. Ha spiegato: “Sono pronto a affrontare le cattiverie della politica e a chi osserva che non sono allenato ad affrontare la complessità di una grande amministrazione pubblica rispondo che il metodo ce l’ho: studiare, studiare e studiare, ascoltare e approfondire.”
Uno stile un po’ da professore?
