Le urla dal grande Salone Rosso, che sta in mezzo al Palazzo Tursi, la reggia genovese dove ha sede il Comune, in mezzo alla Strada dei Re, la via Garibaldi, patrimonio dell’Unesco, scendono giù per la tripla rampa degli scaloni seicenteschi e rotolano sull’asfalto nobile su cui si affacciano il palazzo Rosso e il palazzo Bianco, i grandi Musei che la Duchessa di Galliera donò alla città, allora Superba.
Da mesi oramai è così ogni martedì di Consiglio Comunale, il palazzo è preso d’assalto da cortei di ogni colore e di ogni protesta, dagli autisti dell’Amt, l’azienda fallimentare dei trasporti pubblici, dall’orchestra del Carlo Felice, il tempio lirico vicino al crak, dai lavoratori dell’impero in spezzettamento di Finmeccanica, Selex Sts, piuttosto che Ansaldo Energia, dai Comitati del No Gronda, che sono il popolo contrario alla costruzione della famosa tangenziale genovese, dai No Tav che non vogliono la costruzione del Terzo Valico, la linea ferroviaria veloce tra Milano e Genova, da operatori del Terzo Settore, che assistono impunemente ai tagli sociali del bilancio comunale, dagli operai della storica Fincantieri, che costruì le grandi navi della storia genovese, dal Rex all’Andrea Doria, che aspettano commesse e ristrutturazioni del cantiere di Sestri Ponente, dagli operai dell’acciaio di Riva che vedono minacciato il posto di lavoro perchè dall’ Ilva di Taranto non arriva più il materiale sigillato dalla magistratura pugliese, poi sbloccato, poi gestito dal commisario dell’Acciaio Ilva, il commendator Enrico Bondi …….
Ogni martedì è così, perché il Consiglio si riunisce e il popolo sale gli scaloni e va a a sistemarsi nelle tribune del pubblico, con striscioni e megafoni. Sono saliti perfino i rappresentanti dei Vigili Urbani, obbligati dai nuovi diktat comunali a lasciare gli uffici e ad andare a sorvegliare gli incroci di una città che ha sempre meno traffico, più biciclette (che costano meno), più moto.
Salgono e urlano, forse aizzati dal fatto che da tredici mesi il governo della città è in mano al marchese Marco Doria, eletto a sorpresa e a capo di una maggioranza di sinistra, che più di sinistra non è mai stata, con il Pd in sofferenza critica, il Sel che tuona, la stessa lista Doria, che incalza e critica il suo sindaco e sei seguaci di Beppe Grillo che danno battaglia a tutto campo.
Sarà uno scherzo del destino o delle coincidenze storiche, ma il momento della maggiore sofferenza popolare, nel pieno della grande crisi mondiale, altro che recessione o depressione, coincide a Genova, una città ridotta oramai sotto i seicentomila abitanti ( nel 1971 erano quasi novecentomila), con l’avvento al vertice del potere comunale di un successore della famiglia Doria, che fece grande la Repubblica genovese nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, poi definito il Secolo d ‘oro “de los genoveses”, un tempo tanto storicamente cruciale che il futurologo francese, Jacques Attali, lo ha citato tra i periodi d’oro nella storia del mondo, elevando Genova al rango dell’Impero Romano, alla potenza della dinastia dei Ming e all’apogeo dei Faraoni d’Egitto.
Mai la dirigenza genovese è stata tanto a sinistra, neppure nell’epoca abbastanza recente delle giunte rosse, tra il 1975 e il 1985, e mai il furore popolare è giunto al punto di rottura delle contestazioni dirette e rumorose nei luoghi della democrazia rappresentativa.
Il diario della crisi è oramai un bollettino di guerra quotidiano, ritmato non solo dalle invasioni nella Sala Rossa del Consiglio Comunale, ma da cortei e manifestazioni, che percorrono la città da un capo all’altro e che a differenza degli anni ruggenti del sindacalismo triplice e trionfante, non invadono più massicciamente le piazze, ma serpeggiano qua e là nella geografia oblunga di questa città, distesa lungo la sua costa e nelle due grandi vallate del Bisagno e del Polcevera, la valle dei rifiuti per definizioni e l’altra che era la propaggine industriale del Ponente operaio.
In questo stato d’assedio permanente Doria fa la figura di San Sebastiano a cui tutti tirano le freccie, compresi i suoi alleati di lista e di governo, aspettando una mossa, una decisione che non arriva mai. Altro che aspettare Godot.
Paralizzata dai tagli al bilancio decretati da Roma , l’amministrazione comunale non riesce a varare un solo provvedimento, che inverta la tendenza di arretramento produttivo: la crisi più visibile è quella dell’edilizia, dove sono caduti in un anno quasi tremila posti di lavoro, dove ci sono cessazioni di attività quasi quotidiane, mentre il tessuto commerciale è falciato quasi ogni giorno da una media di quattro chiusure. Nell’ombelicale via della Maddalena, a un passo dalla Strada dei Re, diventata della protesta, in meno di trecento metri di percorso ci sono 97 saracinesche calate. In via san Luca, stesso “caruggio” le serrande chiuse per sempre sono 57. E’ l’ecatombe della città antica.
Quelli sono i caruggi bui, invasi dalla prostituzione, ridiventati pericolosi, ma le chiusure oramai dilagano ovunque. Il quartiere, un tempo pimpante e centrale di Piccapietra, quello costruito dopo i bombardamenti della guerra, è oramai un cimitero vero e proprio, dove hanno chiuso negozi storici dei marchi mitici a Genova, come Bagnara Sport e da dove se ne va perfino il Genoa Store, il grande magazzino del franchising rossoblu.
Le gallerie commerciali, una volta, negli anni Sessanta-Settanta, salotti di grandi negozi e bar eleganti, sono diventati il bivacco dei senza tetto notturni, come tutti i sottopassi della città che il Comune preferisce lucchettare di notte, anche se sono in mezzo alla city e collegherebbero le piazze centrali come De Ferrari, oramai diventata da piazza viva della ex Superba l’incubo del disagio: il pronao e la immensa torre del Teatro Carlo Felice, svettano su uno spazio vuoto, anch’esso diventato il ricovero dei senza tetto, che si accoccolano tra la biglietteria(che non vende più quasi biglietti) e l’ingresso di un teatro lirico, che potrebbe diventare il luogo in cui si innalza il canto del cigno, oppure l’ultimo acuto prima della fine.
Il cancro della crisi si mangia anche il cuore di Genova, chiudendo negozi e sostituendo gli spazi della vita culturale e sociale o con i barboni o con l’inesorabile avanzata dai cinesi, che offrono affitti d’oro a proprietari di palazzi e negozi senza più inquilini e affittuari.
Parlano cinese, oramai da tempo, i quartieri intorno alla stazione ferroviaria di Principe, un tempo circondata da alberghi, tavole calde, botteghe pimpanti e galleggianti tra un angiporto ricco di profumi e odori della merce del mondo e oggi cristallizzati nella catasta di scarpe, zaini, stracci a 5 euro di una mercanzia uguale in tutto il mondo, che si affaccia da ogni vetrina a fianco dei volti inespressivi delle formichine con gli occhi a mandorla.
Ora i cinesi assaltano anche i quartieri intorno all’altra stazione, quella di Brignole, ridotta da cinque anni a un cantiere che non procede e sbucano anche in pieno centro, cercando spazi, che non sono ancora concessi perchè i commercianti di una classe sociale, che strippava di soldi intorno al porto, ai suoi affari e ai suoi traffici, non si vuole ancora del tutto arrendere.
Ma ben presto le ultime barriere cadranno nella città più vecchia del mondo con l’indice di vecchiaia che continua ad alzarsi e i giovani che possono oramai sempre più in fuga da una realtà dove il tasso di disoccupazione giovanile supera il 30 per cento. Quelli che non possono restano nel pantano gelatinoso, consumando una-due generazioni nell’attesa che si faccia quel che non si fa.
Chiudono marchi storici dell’industria genovese, come “Brignola Colori”, una delle aziende che aveva fatto fortuna dipingendo gli scafi delle navi e di una città in crescita e vengono inghiottite da “firme” dello stesso settore, in una progressivo restringimento dell’industria che si ripercuote pesantemente sul territorio: la fabbrica Brignola teneva viva l’occupazione in una area dell’Alta Valpolcevera, dove aveva mantenuto un bastione non solo di un centinaiio di posti di lavoro, ma anche un conseguente indotto. E ora anche quella parte di città si depaupera e il tessuto industriale subisce un’altra sutura sanguinosa, scioperi, assemblee, sindaci disperati, fabbriche dismesse, traffico che si estingue.
Si salvi chi può. Dei trentasei armatori che avevano uffici nella ex capitale del Mediterraneo negli Anni Sessanta oggi ne resistono due o tre, a essere ottimisti, comprendendo nel numero anche la “Ignazio Messina”, la compagnia che vive giorni terribili dopo l’incidente di Molo Giano nel quale il loro Jolly Nero andò a schiantarsi di poppa contro la palazzina dei piloti, provocando nove morti, una delle sciagure più dure della portualità genovese.
“Quando ero un giovane broker – racconta Lorenzo Banchero – il principe oggi della intermediazione marittima, con centinaia di dipendenti a Genova e un migliaio in tutti i continenti – ci mettevo un giorno per visitare tutte la case armatoriali nella città di Genova e oggi si potrebbe anche lavorare lontano da qua”.
Industria ridotta a residui manifatturieri, ai circa duemila dipendenti della Ilva dei Riva sotto scacco, oggi spossessati dell’ex Italsider, ai duemilacinquecento di Ansaldo Energia, sub iudice delle decisioni Finmeccanica, di alienare i pezzi forti del suo patrimonio, quasi azzerata la flotta armatoriale, da piccoli e grandi fallimenti, molti dei quali anche segreti e sconosciuti, quale potrebbe essere l’architrave dell’economia genovese se non i traffici di un porto che alla fine i suoi due-tre milioni di container li traffica ancora?
La città punterebbe sulla collina degli Erzelli, dove già si sono trasferite alcune aziende come la Eriksson, immaginando di entrare in un piano strategico della nuova industria, dell’ hig tech, della ricerca, dell’Università.
Ma l’Università, facoltà di Ingegneria, stenta da anni a decidere un trasloco che a Genova sembra come scalare l’Everest e che costa qualche milione di euro e mentre il rettore DeFerrari tentenna ancora, la Eriksson è già costretta a mettere in cassa integrazione ottanta dipendenti, che erano già saliti sulla collina della speranza postindustriale, un luogo magico sopra l’aeroporto, sotto il cielo che Renzo Piano, l’archistar di casa, definì il più bello di Genova.
Proprio a Renzo Piano, come Blitzquotidiano ha già raccontato, hanno chiesto di tirare fuori dalla naftalina il suo piano per ridisegnare l’Affresco della città, il rapporto tra Genova e la sua soffertissima linea di costa. Lo ha fatto il presidente della Regione Claudio Burlando, oramai politicamente l’ultimo dei mohicani di una generazione che ha trapassato tutte le fasi della politica dagli anni Ottanta e ora presidente della Regione, quasi alla fine del suo mandato, con il problema evidente di quel che farà dopo, di come scavalcherà la sua e l’altrui rottamazione.
Piano sta già lavorando a quel disegno, ma lo fa perché è innamorato della sua città, del porto che ricorda come il grande emporio di una volta. Sa anche lui che i suoi compatrioti, quando la crisi morde di più, quando il popolo si solleva e va a urlare nei palazzi storici, quando i pilastri economici vacillano sempre di più e Genova affronta una delle sue inevitabili decadenze, allora i potenti della politica e dell’economia rilanciano i progetti del futuro, forse per distrarsi dalle chiusure e dai fallimenti del presente. O forse per giocare l’ultima carta.
Incapace di decidere su ogni scelta strategica, sia quella di trasferire Ingegneria agli Erzelli o l’altra di far finalmente partire con decisione i cantieri del Terzo Valico, già finanziati dal Cipe per i due primi lotti, con tutta l’Europa che aspetta la grande opera infrastrutturale, sia quella di stabilire dove innalzare la Moschea, che la Superba aveva già nel 1300, la città sembra divertirsi a rilanciare i temi dei progetti già mille volte discussi. Inutilmente.
E allora dai con il Terzo Valico, fino a perdere i soldi già stanziati che il governo, finanziariamente con l’acqua alla gola, soffia in parte via per pagare opere immediatamente cantierabili e via con il progetto del nuovo stadio di calcio, che la famiglia Garrone vorrebbe costruire nella zona della Fiera, via con la Moschea per le preghiere musulmane, che rimbalza da un quartiere all’altro, come se fosse un campo da bowling.
Le non decisioni sono ritmate non solo dai contestatori, che marciano sempre di più verso il palazzo del Comune, ma anche dalle martellanti decisioni della giustizia, che ora procede in un processo nella carne viva della città, quello per i sei morti del 4 novembre 2011, vittime dell’alluvione catastrofica che fece straripare il Rio Fereggiano.
Tra gli indagati di quella vicenda, oltre ai responsabile della Protezione Civile, c’è la ex sindaco Marta Vincenzi, accusata insieme ai suoi tecnici di avere taroccato le relazioni sulla tragedia per giustificare la scarsa tempestività nelle contromisure all’alluvione improvvisa.
Secondo l’accusa spostarono indietro di quasi un’ora il tempo dell’esondazione, per sottolienarne l’imprevedibilità.
E’ la stessa giustizia che sta processando gli armatori Messina per la vicenda della catastrofe del porto, quella dello scorso mese di aprile costata, in questo caso nove vite, tranciate dalla botta terribile della nave contro la banchina, su cui poggiava la torre piloti, crollata come un castello di carte.
Quella nave portacontainer manovrava allo stretto, in un porto che oggi è troppo piccolo per navi troppo grandi, cresciute in un gigantismo navale che è figlio dei nuovi traffici e della crisi stessa. Navi più grandi per meno viaggi, navi più grandi per portare più container dal lontano e crescente Far Est. Porto troppo piccolo, diga troppo vicina ai moli.
Quegli alvei di fiumi, quasi sempre secchi se non quando la nuova meteorologia, gonfia di bombe d’acqua, li pompa improvvisamente a dismisura per farli esplodere nelle strade a uccidere gli innocenti non messi al riparo dalle autorità costituit,e non hanno canali scolmatori, deviazioni, dighe che li controllinoe li imbriglino, come i tecnici invocano da decenni e le casse vuote impediscono di realizzare.
Rullano i tamburi della protesta, insieme col tam tam giudiziario e la Superba non sa che decidere se non avvoltolarsi nei suoi no.
E i pilastri che reggevano le certezze di Genova, ex Superba, tra il mare Ligure e le colline brulle del suo anfiteatro, vacillano uno a uno: primo: l’industria che non ha più fiato per l’occupazione, secondo: il porto che non si modernizza ed è troppo stretto, terzo: le vie di comunicazione, dette oggi infrastrutture, che ricevono solo dei No dal popolo sovrano, cui le autorità democraticamente elette non sanno spiegare perchè si devono fare, quarto: le nuove aziende del futuro postindustriale hig tech e company, che non riescono a accendere le luci del futuro intorcigliate nella crisi e nelle incertezze, quindi l’incapacità di disegnare un futuro agitato solo come un disegno, nobilitato dalla definizione di Affresco (come se bastasse), ma mai perseguito, quinto: la voragine di un tessuto urbano commerciale che in una città emporio sarebbe il sale degli affari e del lavoro e che si inceppa tra degrado urbano e “arrivano i cinesi”, sesto: la demografia che uccide con le sue sentenze da popolo vecchio, stravecchio, in mano a una assistenza sociale fatta di badanti e non di strutture sanitarie preparate al domani, settimo………
L’incapacità di decidere, di sbrogliare si affumica nelle sparate propagandistiche, nel bla bla mediatico, nelle apparizioni a spot, nello scaricabarile con una giunta comunale dove gli assessori di Doria si accusano di scansare le fatiche e tutti aspettano il tonfo finale e con una giunta regionale, crivellata dagli scandali.
L’ultimo è quello della ex vicepresidente regionale, la bella mora Marilyn Fusco, anche ex assessore all’Urbanistica, beccata dai giudici dopo le sue dimissioni mentre registrava personalmente le conversazioni tra il suo presidente Burlando e i costruttori edili. Si tratta di un caso inedito di intercettazione “interna”, che mina ancora i rapporti di un governo regionale trapassato dallo scandalo delle mutande comprate con i soldi pubblici dall’altra supermiss della giunta, Maruska Piredda, Idv , la bella hostess, molto vicina al politicamente defunto Antonio Di Pietro.
Può tutto questo reggere o è questo l’ultimo pilastro con il quale Genova e le sue amministrazioni possono crollare?