Magliette rossoblu e microfoni spenti. Genoa e Genova in serie B?

La partita Genoa-Siena, interrotta dagli ultras rossoblù

GENOVA – Il paragone potrebbe sembrare una bestemmia. Come mettere sullo stesso piano le magliette rossoblù dei calciatori del glorioso, o ex glorioso Genoa Cricket and Foot Ball Club, delle quali i giocatori sono stati costretti a spogliarsi, con i microfoni spenti davanti ai candidati sindaci delle elezioni comunali? Come paragonare i cento ultras rossoblù, che si impennano sulle griglie dello stadio Luigi Ferraris e interrompono Genoa-Siena sullo 0-3 contro la propria squadra, con i cento “facinorosi” che irrompono nel Salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, dove sedevano Dogi e Consoli della Magna Repubblica Genuensis e dove i famosi G8 del 2001 firmavano gli accordi nella città incendiata dai disordini, undici anni fa?

Nessun accosto è possibile, nessun paragone si può fare tra il tempio del calcio e quello della politica elettorale, giunta alla vigilia delle elezioni più attese a Genova negli ultimi decenni, dall’esito più incerto e dal clima più ribollente.

Ma i fatti sono proprio questi e si assomigliano in modo impressionante – i giocatori fermi a torso nudo, i candidati sindaci muti sulle loro sedie – perché il finale è stato praticamente lo stesso. Il pallone si è fermato sull’erba verde di Marassi, il dibattito non è neppure cominciato tra i sei candidati sindaci presenti.

Volevate avere conferme sul fatto che nella vigilia elettorale Genova è veramente una città-laboratorio e cercavate la prova della febbre alta dell’anti politica o della nuova politica che fa saltare il tappo? L’avete trovata nel finale pirotecnico della campagna genovese.

E’ accaduto alle nove delle sera che il grande match organizzato dalla emittente televisiva “Primo Canale” insieme al quotidiano “Il Secolo XIX” sia saltato perchè sulle sedie del confronto c’erano solo sei dei tredici candidati sindaci in lizza. Avevano invitato, quelli che Il Secolo XIX ha giudicato, nella sua cronaca del giorno dopo, “i maggiori” e non i sette “minori”. E la decisione non è piaciuta ai supporter degli esclusi che hanno invaso il Salone e di fatto impedito il confronto. Seduti come statue di sale, simili a quelle che ornano il Palazzo, c’erano Marco Doria, centrosinistra, Pierluigi Vinai, Pdl, Enrico Musso, Oltremare e Udc, Edoardo Rixi, Lega Nord, Paolo Putti, Cinque Stelle e Susy De Martini, la Destra, in pratica quelli che i sondaggi indicano come i probabili più votati.

Fuori sono rimasti in sette: Giuseppe Viscardi di Gente Comune, Armando Siri, Partito Italia Nuova, Roberto Delogu, Csp e Partito Comunista, che si sarebbero volentieri seduti con gli altri. Gli altri quattro candidati sindaci si erano autoeliminati da soli da questa giostra che gira a Genova dall’inizio della campagna elettorale e sulla quale si sale e si scende continuamente, senza che mai tutti insieme siano comparsi in un pubblico confronto.

E’ il bello della campagna elettorale, ma anche il brutto della par condicio che è andata a farsi friggere più volte, per colpa di una legge che consente a chiunque di correre a fare il sindaco, basta che racatti cinquecento firme, magari anche per strada: un nome, una carta d’identità e puoi correre…

Friggi, friggi la padella è bruciata nella penultima serata elettorale e nel luogo più “sacro” del confronto politico. Urla, fischi, sventolio di bandiere tanto sonoro e incessante che i direttori di “Primo Canale”, Mario Paternostro e de “Il Secolo XIX” Umberto La Rocca hanno alzato bandiera bianca.

Nessuna delle due testate aveva scrupoli rispetto alla par condicio, applicata con grandi sforzi e fatiche per tutta la campagna sulle pagine del giornale e davanti alle telecamere della Tv locale più seguita. Sono sfilati tutti e tredici, invitati e a pagamento, chi più, chi meno, in un dibattito sterminato e spruzzato come con lo spray su una opinione pubblica sempre più confusa. Ma far dibattere tredici o almeno dieci candidati in una botta sola per le conclusioni finali non era tecnicamente possibile e così la decisione di limitarsi ai “maggiori” ha, alla fine, incendiato la coda della campagna elettorale e il palazzo Ducale, che aveva appena chiuso le sue porte alla mostra su van Gogh e gli Impressionisti, con il maggiore pubblico della secolare storia genovese, 360 mila visitatori, un boom rispetto al quale il dibattito saltato è stato una specie di fuoco artificiale non programmato. Di quei botti finali che illuminano tutto il cielo sopra la città e le stelle filanti ricadono ovunque per 360 gradi.

Ma questa era una luce che non è stata gradita e non ha rischiarato altro che la grande confusione di una campagna nella quale discutere e mettere a confronto idee e programmi è stata una specie di impresa impossibile.
Certo, così come i giocatori del Genoa, che si erano rimessi le magliette dopo la sospensione forzata della partita e lo spogliarello, i candidati hanno continuato la loro campagna davanti ad altri microfoni, separatamente o a gruppi diversamente composti. Ma “il clou” non c’è stato e i direttori La Rocca e Paternostro hanno dovuto tenere nel fodero le domande finali.

Chissà cosa avevano in serbo per il match della promozione più che della salvezza, come avrebbero cercato di comporre il puzzle impazzito di una scomposizione partitica che ha fatto sfuggire all’opinione pubblica le domande-chiave da porre ai candidati sindaci. Che idea di città hanno lor signori, quali sono le vere emergenze cui porre subito mano di fronte a un declino demografico, economico perfino morale tanto forte da far alzare la voce, subito dopo il dibattito fallito, al cardinale arcivescovo Angelo Bagnasco, che ha urlato contro il pessimismo imperante? Come sanare i deficit delle casse comunali e delle aziende municipalizzate ai tempi dell’Imu e delle altre tassazioni?

La lunghissima campagna per eleggere il sindaco era partita oltre un anno fa con l’interrogativo se la famosa roccaforte rossa di Genova sarebbe stata espugnata da un sindaco non colorato dal centro sinistra, dopo ventidue anni ininterrotti di governo. Poi si era concentrata, questa campagna, nella lotta intestina al Pd, i cui colonnelli volevano liquidare la sindaco Marta Vincenzi alla fine del suo primo mandato per evidente crisi di popolarità. Ma che ci azzeccava la resa dei conti nel Pd, le Primarie da imporre anche alla sindaco uscente dopo solo un mandato, con i problemi di Genova, dei cittadini? Poi è arrivata la micidiale alluvione del 4 novembre e la sventurata Vincenzi si è trovata nei gorghi del fango limaccioso, esondato dal rio Fereggiano, pronta per essere decapitata dalll’outsider Marco Doria, figlio del marchese diseredato, vincitore a sorpresa della Primarie. Poi sono arrivate le grane sul fronte avverso, quello moderato che, a parte il candidato Enrico Musso, officiato da se stesso con una lista civica e poi appoggiato dall’Udc e dal Fli e da Ap, non aveva mai avuto una simile occasione per conquistare la Superba. Roba che neppure il macellaio Guazzaloca a Bologna, quindici anni fa, aveva fatto un botto simile….

Eppure il centro destra, travagliato dallo scandalo del porto di Imperia, che aveva scavallato Scajola, già per altro “ a sua insaputa”, il leader decennale della Pdl, ex Forza Italia, ha sprecato tutte le cartucce, facendosi negare l’assenso alla candidatura da una schiera di papabili: dal grande imprenditore di potere dinastico, Beppe Costa dei Costa, ex Crociere al Carneade Gianfranco Vinacci, un manager benedetto perfino da Berlusconi in persona. E poi il quadro elettorale si è scomposto ancora di più con il boom delle tredici candidature…… E poi c’è stata, in una sbronza continua di sondaggi e controsondaggi, la spallata degli ultimi giorni con la evidente rimonta dei grillini delle Cinque Stelle, lanciata dal genovesissimo Beppe Grillo che sta girando l’Italia come una trottola, ma che a Genova ci pensa eccome.

E poi e poi…..come nelle favole siamo arrivati al finale, quando a furia di dire che “c’era una volta” si dimentica il nocciolo della storia che è Genova, il suo futuro, le scelte secche per invertire il declino. I tredici candidati si sono sgolati in uno sterminio di dibattiti, interviste, confronti, uno contro uno, uno contro due, tre contro quattro, in una babele di linguaggi e di stili di comunicazione, di cultura politica e perfino di look. Ma finire a tavola in tredici, lo si sapeva, porta sfiga e così il dibattito clou è saltato e adesso ognuno per se e Dio per tutti. Non c’è piazza o slargo nel quale in queste ultime quarantotto ore i magnifici tredici non occupino lo spazio pubblico per la loro festa finale e conclusiva.

Resta un problema, anzi due. Non sappiamo se il Genoa alla fine si salverà dalla serie B dopo lo spogliarello delle maglie storiche. E non sappiamo se Genova si salverà, dopo questa battaglia elettorale con lo show finale fatto di urla, fischi e microfoni muti.

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fmanzitti