Genova: forconi, cortei, mendicanti. Pensionati 1 su 2, dall’Ecuador 1 su 10

I Forconi a Genova in piazza de Ferrari (foto Lapresse)

GENOVA – Risali lentamente la strada principale di Genova, via XX Settembre, leggera salita, in mezzo il Ponte Monumentale e poi i grandi portici, fino alla fatidica Piazza De Ferrari, dove i Forconi sono stati infilzati per una settimana e ogni cinquanta metri sbatti il naso in un mendicante.

La differenza rispetto al passato è che stanno inginocchiati in mezzo al largo marciapiede e così chiedono, quasi pregano, l’elemosina alla folla che sale e scende. Cinquanta metri e una mano tesa, un capello rivolto verso l’alto, un cartello con scritto sopra: “Ho fame”, oppure: “Ho un tumore, devo curarmi, non ho soldi”, oppure ancora: “Non ho da mangiare, non so dove dormire”, oppure solo un’invocazione: “Aiutatemi!”.

Cinquanta metri dopo cinquanta metri e arrivi nella piazza De Ferrari dove si infrangono tutti i cortei della protesta, o delle rivendicazioni della crisi dirompente, dove una volta la folla era oceanica, perché la città aveva più di centomila operai, tute blù dell’industria, dei cantieri, navali, del porto e quando c’era “la manifestazione” il sindacato e i partiti erano come una macchina perfetta di mobilitazione.

Ad oggi, fine anno solare 2013, i cortei sono stati più di duecento, quasi uno al giorno, cancellati i mesi della pausa estiva, ma sono sempre cortei con qualche centinaio di persone, anche meno. I Forconi, che hanno occupato per cinque giorni, dal 9 dicembre al 14, l’ombelico della piazza, oltre la fontana, addosso alla statua equestre di Giuseppe Garibaldi, erano addirittura poche decine, abbarbicati sul cavallo del generale, sul suo basamento, di lato al pronao altisonante del teatro lirico Carlo Felice.

Benvenuti a Genova verso il Natale più duro del Dopoguerra, benvenuti a Genova che ora è, senza saperlo, la quarta città dell’Equador, nel senso che tra i suoi 570 mila abitanti, almeno quarantamila tra dichiarati e clandestini, sono arrivati dal lontano paese sudamericano, che sul suo territorio, dall’altra parte dell’Atlantico e dell’intero continente sudamericano, sull Oceano Pacifico, ha solo tre, forse quattro città che vantano una popolazione più numerosa di cinquantamila abitanti. Benvenuti in questo pezzo di Equador, che se non è un paese alla fine del mondo, come l’Argentina di papa Francesco, almeno è nello stesso Continente e alla stessa distanza.

Genova 2013 o quasi 2014 ha trecentomila pensionati, appunto quarantamila equadoregni e una famiglia su quattro, dice il segretario della Cgil Ivano Bosco nella sua relazione targata inizio dicembre, è a rischio povertà. Allora non c’è da stupirsi se, risalendo la via XX Settembre, fai quegli incontri ogni cinquanta metri, perchè se continui e in quattro passi arrivi nella strada più “in” della città, via Roma quella che sbuca davanti alla Prefettura, l’altra sponda di rimbalzo per i duecento cortei del 2013, quelli con la mao tesa si moltiplicano, ma si modificano anche nella tipologia.

Non sono più inginocchiati e dolenti, sono appostati strategicamente agli angoli delle boutiques e dei caffè, sempre la stessa faccia, allo stesso posto da anni, immutabili come in una lottizzazione degli spazi dell’elemosina, della miseria.

Benvenuti a Genova, città de-industrializzata, dove l’ultima industria, è proprio il caso di dirlo, sta volando via perchè si tratta della Piaggio Aerei, che ha appena annunciato la chiusura del suo stabilimento di Sestri Ponente, a fianco dell’aeroporto e la cancellazione di 550 posti di lavoro. La Piaggio vola via, verso un nuovo stabilimento nell’Albenganese e dalla città scompare un altro marchio industriale, che, seppure con una proprietà diversa dal cognome originale, ha segnato la storia.

Addio ai Piaggio, che fu la grande famiglia alla quale si deve la Vespa del boom anni Cinquanta e Sessanta, la Miralanza di Calimero e per un altro ramo gli aerei e tante altre aziende, che occupavano migliaia di lavoratori e di impiegati. A Genova, provincia dell’Equador, lo strappo della Piaggio arriva a scucire del tutto un tessuto economico talmente bucato che la reazione è perfino quasi muta, se non fosse per la busta con i proiettili spedita ai dirigenti dell’azienda in trasloco da un gruppo di sedicenti e fantomatiche Brigate Rosse.

Che ne sanno i cittadini latinos dell’Equador, arrivati fin qua, sperando in un mondo migliore che a Quito o a Guajaill e gli altri immigrati del problema della Piaggio Aerei, che va a Villanova d’Albenga e chiude il cerchio largo una trentina di anni dello stop alle fabbriche nel terzo lato del triangolo industriale?

Se ne va la Piaggio Aerei mentre Finmeccanica sta per formalizzare la vendita di Ansaldo Energia (3500 dipendenti) ai coreani, di Ansaldo Sts, mentre Fincantieri (2800 dipendenti) sta sul mercato, mentre la Selex mette i suoi tecnici, fior fiore di ingegneri, in mobilità con i contratti di solidarietà, mentre dell’Ilva di Emilio Riva, (2700-2900 dipendenti) almeno il 30 per cento in cassa integrazione, non si parla più, come se l’acciaio della lavorazione a freddo di Cornigliano, ex prima e seconda acciaeria d’Italia negli anni Cinquanta e poi alla fine degli anni Settanta, costruita riempendo il mare di Ponente e affumicando per trent’anni la popolazione genovese, dove ora stanno gli equadoregni, fosse indifferente alla storia di questa città.

Gli ultimi due cortei che fanno il giro in via XX e a De Ferrari sono in ordine di sfilata dopo i Forconi quelli dei lavoratori del gas e dell’Acqua, che una volta era l’oro di Genova, diviso tra l’Amga pubblica e gli acquedotti privati Nicolay e De Ferrari-Galliera, di proprietà della nobiltà imprenditoriale genovese, i Parodi, eredi dei banchieri Bombrini ed altre solide famiglie.

Ci manca che sfilino i 3.500 dipendenti della banca Carige, investita tra la fine dell’estate e questo Natale di stenti da una tempesta che ha completamente rinnovato i vertici del sesto istituto di credito d’Italia per patrimonializzazione, dove ora il presidente è un principe, Cesare Castelbarco Albani, erede dei Groppallo, altra big family, ma di sangue blù e della omonima Fondazione, azionista di maggioranza della stessa banca. Sono volati via i vertici della banca, nelle persone del presidente Giovanni Berneschi, il banchiere-doge della città e di Flavio Repetto, il presidente della Fondazione, che è anche un potente imprenditore del settore dolciario, Novi, Elah, Dufour, Baratti e ora Carige è tutta intera sotto un ombrello, dove cerca di ripararsi dalle saette che piovono dai rapporti di Banca d’Italia e dai fulmini che prepara la Procura della Repubblica di Genova, i cui giudici stanno masticando i numeri e i rilievi di una ispezione diventata una specie di big bang finanziario nella città che nel 1407 le banche le aveva inventate.

E, invece, ora che anche le banche della ex Superba tremano dalle fondamenta dei suoi palazzi antichi e moderni, svettando proprio sulla piazza dalle quale si alza l’urlo ancora indecifrabile politicamente dei Forconi, da chi si devono prendere lezioni di economia?

Proprio dal leader numero uno dell’Equador, il presidente Rafael Correa che in una molto qualificata conferenza appena tenuta alla Sorbona di Parigi ha ammonito gli europei e, quindi, anche gli italiani e i genovesi, a casa dei quali si trova la sua quarta provincia per numero di abitanti, a non commettere errori nella gestione del debito pubblico.

“Noi latino americani siamo esperti nelle crisi – ha detto “el presidente” che è anche professore di economia – perché le abbiamo subite tutte e mal gestite. Avevamo una sola priorità: difendere gli interessi del capitale. Oggi l’Europa sta facendo lo stesso errore.”

Correa che parla ex cathedra, tra l’altro nelle vesti di autore di un saggio famoso in America Latina, intitolato: “Da Repubblica delle banane a non Repubblica”, ammonisce l’Europa, non certo i suoi concittadini, emigrati sotto la Lanterna, che salgono e scendono per quella via XX Settembre dove la lingua spagnola suona oramai come una nenia costante.

E ancor meno parla, il presidente sudamericano, ai cittadini indigeni di quella che, invece, fu una Repubblica nel vero senso della parola, immersa oggi in una valle di lacrime. La repubblica il cui figlio più illustre Cristoforo Colombo scoprì il suo Continente.

Il tasso di disoccupazione giovanile che sfiora il trenta per cento, il tasso di anzianità, cioè la media tra ultra sessantacinquenni e quattordicenni, primo in Italia, il tasso di “rassegnazione” (disoccupati che non cercano più neppure un lavoro) oramai esplosivo, il numero di ultra centenari che supera i quattrocento, solo come in qualche enclave giapponese, che pone al sistema del Welfare, problemi irrisolvibili perchè impiantati in una società ultravecchia, dove c’è il boom delle famiglie monoparentali e dove sempre più spesso si muore da soli in casa e il decesso viene scoperto anche mesi e mesi dopo……… Insomma la rete sociale, non solo quella economica, si è strappata da tempo e i più deboli sono precipitati in basso, nel vuoto senza che ci fosse un appiglio cui aggrapparsi: gli ammortizzatori sociali hanno fin’ora parato i colpi delle chiusure industriali, della lunga crisi della siderurgia, della cantieristica, dell’impiantistica, di quelle che erano le aziende Iri.

Ma ora volano di sotto quelli che non avevano il sistema di protezione e l’atterraggio non può che essere nell’esercito dei senza dimora, nelle assistenze di un volontariato dalla lunga tradizione genovese, oramai stremato dal numero, dalla valanga che sta arrivando.

Volano di sotto e si inginocchiano in via XX Settembre, come in un corteo funebre e non si può neppure sostenere che sperano in una moneta, in un aiuto dalla folla che gira a vuoto davanti alle vetrine di uno shopping oramai asfittico nel quale i clienti potenziali del Natale vanno a caccia solo del prezzo più basso possibile.

Via XX Settembre, ex strada simbolo del boom anni Sessanta, con le sue floride botteghe, oggi strada della crocefissione dei mendicanti. Uno ogni cinquanta metri, prima di arrivare in bocca ai Forconi.

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Marco Benedetto