Il compianto capitano coraggioso dell’impresa genovese, Riccardo Garrone, oramai erroneamente definibile come petroliere, la cui azienda oggi è proiettata nel settore delle nuove energie, scomparso meno di un anno fa, e insieme a Vittorio Malacalza, imprenditore di molti settori e contendente di Tronchetti Provera in Pirelli, uomo forte della finanza e della impresa genovese, bollava i banchieri di Carige e Fondazione come “i poteri forti della città”, guai a averli contro. Erano loro a stoppare tutto.
Forse esagerava nelle censure, ma ci pigliava nella definizione globale: gli altri poteri della città si sono molto indeboliti e quel potere era l’unico capace di imprimere decisioni e svolte sulla tela rattoppata del sistema Genova.
Che pretendere da una città che fino all’inizio degli anni Ottanta si equilibrava economicamente tra il sistema delle grandi aziende Iri, siderurgia, energia, impiantistica, cantieristica eccetera eccetera e un pugno di grandi famiglie ultraborghesi in decadenza più o meno verticale, i Costa, i Ravano, i Piaggio, i Cameli, i Bibolini, i Corrado, i Bozzo, i Dufour e i Romanengo, con il grande porto pubblico in mezzo, in mano al terrificante binomio dei camalli della Culmv e del Cap, il Consorzio Autonomo del porto, lottizzato dai partiti di governo che ci piazzavano a capo i professori di Filosofia…
Allora la politica della Prima Repubblica aveva buon gioco con i Taviani, i Russo, i Lucifredi, i Manfredi, gli Orsini della Dc e i Macchiavelli, i Pertini, i Meoli, i Canepa del Psi a montare rapporti fruttuosi con un sistema bancario un po’ meno egocentrico di oggi: la Carige si chiamava Cassa di Risparmio, i presidenti e i vice rigidamente democristiani e socialisti li nominavano direttamente Taviani e i socialisti e nel cda ci mettevano anche i primi comunisti, pronti a occuparsi di finanza paracapitalista.
Oggi di quello scenario rimane poco o nulla e probabilmente è per questo che il grattacielo della Carige, con alla base il palazzo storico della Fondazione svetta così potentemente e gli altri sembravano gnomi in arrampicata libera sulle pareti di cristallo.
Forse Repetto e Berneschi non si sono accorti del tempo che trascorreva. Sono due anziani signori nella città più vecchia d’Italia, d’Europa e forse del mondo e il loro svettare ha avuto qualche eccesso.
Il tempo e gli accertamenti diranno se le accuse più pesanti rivolte a Berneschi, di avere concesso crediti senza garanzie solo agli amici e di non avere provveduto alla catastrofe delle aziende assicurative Carige Assicurazioni e Carige vita sono fondate. E se l’apertura allo Ior di Repetto, decisa in solitario, che gli viene contestata e che gli ha provocato il siluro dei golpisti, era una mossa avventata.
Oggi la Carige rischia che arrivi un Commissario e metta i ferri alla sesta banca italiana per patrimonializzazione, cresciuta in quaranta anni da banca municipale a settecento sportelli in tutta Italia e a una galassia di società che contengono altre banche.
“A chi dovevo dare i soldi se non agli imprenditori che mi presentavano progetti capaci di creare posti di lavoro?”, contrattacca Berneschi crocefisso dal rapporto di Banca d’Italia.
“Abbiamo difeso l’autonomia e la forza della Banca e l’abbiamo resa non scalabile”, si difende Repetto, che si è prodigato per aumentare la quota di maggioranza, tirando dentro i soci genovesi, recuperati da quelle macerie del cataclisma economico genovese degli ultimi trent’anni.
