Che c’entrava con tutti quei personaggi da grandi capitali, grande potere, grandi professionalità, da salotti vip, il vecchio Paride, celebre per il suo eskimo verde, il suo look affascinantella a Charles Bronson, a capo di un esercito di camalli, aristocrazia del mondo operaio genovese, scesi dalle 3500 unità degli anni Ottanta alle 900 dell’epoca attuale? Che c’entrava questo camallo, nato da padre anarchico a Vico Pisano, trasferito a Genova da bambino a vivere nella profonda periferia operaia, portuale occasionale da subito, ex pugile, dal fisico duro come una roccia, dalla parlata genovese secca come una frustata, dal carisma travolgente quando si metteva in testa a un corteo di camalli, gru e rimorchi portuali?
L’accusa lo aveva ferito forse ancora più della malattia che se lo sarebbe portato via nel tempo del processo, ma non aveva fiaccato quell’uomo che aveva il suo ufficio in quella palazzina bianca che sta sulla collina di san Benigno, in mezzo al porto, sopra la storica Sala Chiamata, dove ancora oggi attaccati al muro, davanti ai banconi per i portuali che aspettano la chiamata, ci sono le foto di Marx, Lenin, di Guido Rossa, l’operaio ucciso dalle Br che aveva denunciato in Tribunale.
Paride si era sempre battuto per i suoi camalli, semmai loro travolti dalla violenta trasformazione del porto, privatizzato rapidamente tra la fine degli Anni Ottanta e i primi anni Novanta, ridotti nel numero e isolati nella battaglia politica, dopo il crollo del muro e della Cortina di ferro. Lui, il Paride e loro erano rimasti marxisti e leninisti e dal Pci, che diventava Pds, Ds, Dp e anche Rifondazione Comunista, li separava lo stesso muro che cingeva le banchine del porto allontanandole dal resto della città.
Batini aveva dovuto mettersi la giacca e la cravatta (e bucava il video anche così) per trasformare la Compagnia in una azienda che si trovasse il lavoro sulle navi da sola. E se no i camalli sarebbero spariti dalla faccia dei moli, sostituiti da un altro personale scelto dai privati.
Che altra strada c’era, se non mettersi in concorrenza, chiedendo in concessione una banchina, confinante con quelle dei potenti terminalisti rimontanti sulle banchine private?
Anche questo Batini aveva provato a fare per salvare la Culmv, dopo avere combattuto a viso aperto la privatizzazione. Quando il ministro Dc dei Trasporti, il famoso Gianni Prandini da Brescia, poi travolto da Tangentopoli, gli aveva sparato i decreti per togliergli l’esclusiva dello scarico delle navi, Batini e i suoi viceconsoli, una domenica mattina, avevano preso la macchina e si erano presentati senza alcun preavviso a casa del ministro: muso duro, educazione e richiesta di spiegazioni. Era finita con un bicchiere di bianco e Paride era tornato a casa con qualche vantaggio per i suoi ed aveva perfino ringraziato per l’accoglienza quelli che lui chiamava “mangianebbia”.