Satana. “Che Satana sia con te”, salutava don Riccardo Seppia, reverendo parroco a Sestri Ponente, vecchio cuore operaio di Genova industriale e postfordista, dal telefono della sua chiesa arrampicata sulla brutta collina periferica in via Ludovico Calda, nome di un eroe sindacalista portuale del primo novecento diventato fascista. Usava quel saluto non per scherzare o magari ammonire con una pesante ironia le pecorelle smarrite del suo gregge di parrocchiani che guidava dal 1997, dopo un lungo curriculum nelle chiese genovesi, anonimo ma già predestinato a quella chiesa defilata, il luogo ideale per nascondersi e apparire, appunto come un Satana, un diavolo, per irretire le sue piccole vittime. Satana sia con te lo diceva questo prete lungo, calvo, con grandi occhiali, lo sguardo sfuggente, tanto sfuggente che per anni e anni non lo avevano mai neppure sospettato, al suo complice, un ex croupier, poi ex seminarista, noto solo con le iniziali, E.A., che era il suo interlocutore perverso, secondo le accuse della Procura di Milano e poi di quella di Genova alla quale sono passate le carte di fango di una inchiesta sulla pedofilia più pesante che si ricordi.
E tutto ciò nella chiesa che fu di Giuseppe Siri, cardinale – principe per 45 anni di Genova ed ora di Angelo Bagnasco, cardinale, arcivescovo, presidente della Cei, che al suo predecessore, ieratico, quasi monumentale nella forma e nella sostanza della sua azione pastorale, tra stuoli di chierichetti, passiere rosse, turibolazioni di incenso, genuflessioni di fedeli e corteo di monsignori e preti con i quali accedeva nelle sue parrocchie disseminate per il territorio genovese, in riva al mare o sulle colline rosicchiate dal cemento come questa di Sestri, dove ora si sono puntati tutti i riflettori, mentre Satana – don Seppia, sta nel carcere di Marassi, muto, quasi minacciosamente silenzioso, pronto a confessare solo che lui si drogava da 17 anni, che la cocaina, merce di scambio del suo mercato sessuale la usava da tanto tempo, sembra assomigliare.
Tutto questo avviene nella chiesa di Bagnasco e Siri, appunto e nel quartiere simbolo del muro a muro storico ideologico di quella che fu la contrapposizione tra l’ideologia cattolica e il comunismo duro e puro dell’era postbellica e poi degli anni della grande industrializzazione, quando Sestri veniva definita la Stalingrado di Genova, il Pci raggiungeva il 60-70 per cento dei voti, i grandi cantieri navali e le fabbriche siderurgiche, Italsider, Italimpianti, Ansaldo, il cuore della vecchia Iri, le fonderie private arruolavano decine di migliaia di operai tutti rigorosamente con la tessera Pci e sedi di partito tanto grandi e frequentate che quelle si che sembravano vere cattedrali. Non la grande chiesa barocca del centro di Sestri nella piazza Francesco Baracca, sede del supercomizi Pci, che quando arrivavano i cortei trasbordanti di bandiere rosse, i chierichetti andavano a chiudere il portone principale perché i canti di Bandiera rossa non soffocassero il suono dell’organo e terrorizzassero gli sparuti fedeli ammucchiati nei primi banchi. Altro che Don Camillo e Peppone. Lì Peppone dilagava e non aveva la bonomia del sindaco duro e dialogante alla Mario Cervi.
Lì era un muro a muro e i primi preti che si erano andati a infiltrare nelle roccaforte rossa erano, non a caso, preti operai, cappellani di fabbrica che Siri, cardinale lungimirante e acuto, si era inventato per entrare e convertire nella Stalingrado rossa o per fare testimonianza, come predicavano angelici i reverendi in tonaca e tuta blu.
Oggi, in un altro mondo, anche a Sestri, dove gli operai sono decine di migliaia in meno e dove il parroco – Satana compare sulla collina e dove Berlusconi ha passeggiato qualche anno fa, in un clamoroso comizio elettorale itinerante, cercando di strappare al centro sinistra il governo della Provincia genovese, sfidando il cuore rosso e comunista di Genova (e fallendo la performance), la parte della conversione la fa proprio il cardinale Bagnasco in persona che arriva a Sestri per fermare non l’ondata rossa ma quella di fango di don Riccardo Seppia.
Arriva il cardinale presidente della Cei a poche ore dall’arresto con una tempestività inusuale per la Chiesa e una frontalità davanti allo scandalo pedofilo che mai era stata usata da Roma in nessuno degli angoli della terra dove lo scandalo sessuale di preti, vescovi, cardinali era esploso con una deflagrazione mostruosa, minando dalle fondamenta le certezze della cattedra di Pietro.
Arriva Bagnasco senza stuolo di scorta e incensi e paramenti ricamati d’oro e profumi di incenso. Sale con il suo segretario lassù sulla collina di via Calda e va a dire la messa al posto del parroco appena arrestato, a rassicurare, come si può farlo, i fedeli sconvolti. “Provo vergogna e sgomento, sono vicino alle vittime”, dice dal pulpito con gli occhi bassi, il pastorale in pugno, lo zucchetto porpora piantato sulla testa.
Un gesto tempestivo mai visto, che prende le distanze dalla macchina del fango che l’inchiesta sta sputando più forte dei torrenti impazziti che qualche mese fa hanno messo in ginocchio la “delegazione” (come chiamò Mussolini i vecchi comuni industriali della riviera genovese dopo l’incorporazione nella grande Genova) saltando fuori dai loro alvei stretti nei toboga di cemento di una urbanizzazione selvaggia.
Qua di selvaggio c’è nelle carte dei giudici l’azione del parroco – Satana, le sue parole trascritte nei fiumi di verbali delle intercettazioni che raccontano la trama incredibile del suo vizio perverso e impunito per decenni. Lo chiamavano “il prete della notte” nei sussurri schifati della gente, perché lo vedevano sgusciare dalla canonica e andare “a strusciarsi” nei locali by night di Sampierdarena, la “delegazione” più vicina al porto, dove una volta si ubriacavano i marinai americani della Sesta Flotta di stanza a Genova prima che la trasferissero a Napoli perché nelle banchine genovesi navi come la mitica Forrestal non ci stavano, e dove si sfogavano la mala nobile di allora, contrabbandieri, prostitute che sembrano duchesse rispetto al mondo che bazzica ora nel by night del terzo millennio, dove gli incontri si organizzano lì dopo i corteggiamenti e gli approcci chat line e le cacce sfrenate alle pulsioni più segrete, confessate sui computer e non nei confessionali dove Satana – don Seppia faceva gli agguati alle sue vittime.
Un mondo a rovescio su quella collina, in quella chiesa.
La mattina predicava in chiesa, impartiva i sacramenti, confessava e la notte scendeva a caccia. Le carte giudiziarie urlano i suoi desideri che lasciano senza fiato: “Satana sia con te, oggi ho voglia di uno più piccolo di 14 anni e con il collo tenero”, confessava al suo partner, seminarista – croupier. E partiva. Il luogo della caccia preferita era intorno al grande centro commerciale della Fiumara, inventato per dare sfogo alle popolazione del Ponente ex operaio, melting pot, speaking sopratutto latino americano, percorso dalle bande dei latinos, ma anche da quella umanità disperata di ragazzini di colori meticci che per dieci euro da farsi un hamburgher e patate fritte o per comprarsi l’ultima maglietta di grido erano pronti a tutto. Anche a farsi mordere il collo da quel prete-satana che scendeva dalla collina, dalla sua chiesa in via Calda, affamato come il lupo cattivo delle favole, ma molto più infame, magari fatto dalla coca che era il suo primo vizio nascosto.
Lo sapevano, oh se lo sapevano le mamme dei bambini del suo catechismo che quel prete era strano, che il don era fuori di testa! Lo sussurravano, lo denunciavano di sottobanco, ma poi che potevano fare, che può fare una madre che ha mille guai da affrontare e quella canonica con la lezione di catechismo e i chierichetti da formare per servire la messa salva qualche ora di lavoro senza i piccoli da accudire. “Vai su in chiesa, ma non confessarti da lui”, raccomandavano ai bambini, per evitare il contatto diretto con il don sospetto. Cosa c’è di più pericoloso della confessione a tu per tu, magari in un angolo buio della sacrestia per il primo approccio con i più piccoli, per l’inizio della corruzione.
“E’ un po’ che non ti confessi: perché non vieni domani mattina”, telefonava mellifluo don Seppia ai suoi “bimbi”. “Ma domani mattina sono a scuola…”, tentennava il predestinato. “E che importa? Vieni da me, abbiamo tutta la mattina a disposizione”, ribatteva il parroco, calpestando ogni regola, corroso dalla sua fregola infame, sfrontato, impunito.
Lui insisteva: “Procurami un moretto di meno di quattordici anni, che a sedici anni sono troppo vecchi” chiedeva al suo partner E.A..
Nella sua canonica aveva tre computer, di cui uno dedicato ai file segreti per organizzare gli assalti con la coca: una specie di centrale di Satana. E che altro poteva esserci nella stanza di quel prete che nel 1994 aveva, da giovane viceparroco di un’altra chiesa del centro genovese, incominciato la sua “vita di sesso estremo”, come dicono le carte giudiziarie?
Ma tutto questo scandalo che fa correre Bagnasco con la sua croce in pugno nella Chiesa del peccato come ha potuto non essere fermato, prima che le vittime cadessero a decine in quella rete lercia, lanciata con Internet, sulle chat line e poi con i metodi più diretti, le opzioni del complice ex seminarista, gli agguati alla Fiumara, le insistenze nei confessionali dove ci si va a lavare l’anima nona farsi circuire e patteggiare scambi coca-sesso?
Il grande cardinale Dionigi Tettamanzi, colonna della Chiesa, oggi arcivescovo di Milano, allora qui a Genova lo aveva messo sotto controllo quel prete chiacchierato, ma non era andato oltre. Bagnasco lo aveva ammonito in una processione, forse avvertito da qualche sussurro che era riuscito a penetrate le muraglie del pudore, della vergogna ed anche del silenzio un po’ omertoso che copre i misfatti dei ministri di Dio se riguardano la sfera sessuale, il voto vacillante della castità, frantumato dall’onda degli scandali del terzo millennio: “Mi raccomando!”, gli aveva detto severo con uno sguardo fulminante.
Ma Satana – don Seppia era oramai un malato incurabile. Non si fermava più, cercava freneticamente nuove vittime. Adocchiava perfino case – famiglia che accoglievano bambini disabili per avere meno difese da abbattere, meno coca da sprecare, in una cavalcata ossessiva, in una capriola totale di se stesso dei suoi principi, in uno sdoppiamento completo della sua personalità, del suo ruolo. Scendeva dall’altare dopo l’”Andate la messa è finita” e si attaccava al telefono per spiegare ai suoi partner, come lo voleva fare, “Come in un film hard”.
E tutto questo si ferma e erutta dalla collina di Sestri, solo perché la Procura di Milano indagando su un traffico di coca “becca” il don e incomincia a intercettarlo e scopre l’indicibile, molto e molto di più di quanto suggerivano le rimontanti chiacchiere della delegazione di Sestri, le paure della mamme, i dubbi dei colleghi preti.
Don Riccardo Seppia, parroco di Santo Spirito, via Ludovico Calda è rinchiuso in isolamento nel carcere di Marassi. Lo hanno controllato a vista, temendo gesti disperati. Poi hanno lasciato la guardia. Non è pericoloso per se stesso. Ha confessato solo che si drogava da 17 anni. Sul resto tace. Guarda i Tg e si avvale della facoltà di non rispondere. Finirà davanti al Gip la prossima settimana. Nega gli atti sessuali commessi sui minori. Aspetta che la valanga delle accuse, delle testimonianze gli rovini addosso. Come se franasse dalla collina dove sta la sua chiesa, tra le case, lontano dal mare, sommersa dal fango, non quello delle alluvioni, ma il suo.