Ilva Genova: Natale di lavoro, Befana d’attesa

Operai dell’Ilva di Genova

GENOVA – Stanno chiusi dentro la fabbrica in millesettecentosessantacinque operai, impiegati, generazione giovane tra i trenta anni scarsi e i cinquanta, non di più, “Generazione Nutella” li avevano ribattezzati qualche anno fa, quando paron Emilio Riva, il padrone, il “mangianebbia”, come lo chiamava, sfottendo la sua origine lumbard, dall’altra parte del grande porto genovese, Paride Batini, il mitico console dei camalli, aveva ottenuto l’ultimo accordo di concessione che perpetuava il suo dominio e prometteva altri investimenti, altre strutture di produzione e, quindi, tecnici, nuovi, giovani, pimpanti. Appunto Generazione Nutella.

Erano solo sette anni fa e sembra un secolo. Stanno ad aspettare chiusi nel cuore ombelicale di Cornigliano, il quartiere genovese dell’acciaio, della acciaieria costruita negli anni Cinquanta, ricostruita con grandi sfavillii e universale consenso popolare, sindacale e politico del Pci, allora dominante, nel 1978, venduta dall’Iri ai privati nel 1989, passata a lui, il “ mangianebbia”, stanno a aspettare i lavoratori dell’Ilva.

Aspettano le sentenze dei giudici di Taranto, i decreti del governo da trasformare in legge, malgrado la crisi di Berlusconi contro Monti, le decisioni finali della famiglia padrona Riva, di questa dinastia, i cui capi qui sono sfilati uno ad uno, arrivati, ripartiti, Emilio, il vecchio, poi i suoi proconsoli, tutti i figli di due matrimoni, il Claudio, che sembrava il più stanziale, il più dialettico malgrado il muso duro e poi il Daniele, il più giovane, quasi un Carneade e il Fabio, il fuggitivo di oggi.

I padroni, i capi e i loro manager se ne stavano nella grande villa Bombini, gioiello seicentesco degli uffici della Ilva spa, una specie di fungo di stucchi, scalinate, finestroni, piano nobile e saloni, in mezzo al deserto della “mezza acciaieria”. Sì proprio “mezza” perché è diventata tale da quando, nel 2005, si è spento l’altoforno “a caldo” e la prateria immensa concessa a Riva per 90 anni ancora ha cambiato i suoi connotati, riducendo la lavorazione solo all’impianto “a freddo”.

Una parte di quel territorio, tra la città e il mare, anzi sopra il mare coperto con le gettate di cassoni e cemento a riempire le onde e a basare le fondamenta per quello che era diventato “Il Mostro” sputafuoco, sputafumi, la macchina dell’acciaio, è diventata un semi deserto. Là dove c’erano la “colata continua”, le linee di produzione lunghe chilometri e le cokerie, gli agglomerati, come si chiamavano e si chiamano ancora i pezzi di questa fabbrica onnivora e immensa, dove gli uomini sembravano puntini blu che riconosci solo perché hanno un casco in testa, magari una maschera anti fuoco che spesso non li protegge, ora ci sono gli avanzi sperduti di una colossale demolizione.

Via l’altoforno, sette piani di acciaio contorto, di ciminiere, di camini neri, di pareti color nerofumo, via tutto il resto. Ci sono magazzini sperduti, strade tortuose delimitate da barriere di metallo sbattacchiato dal vento e il vuoto che corre verso il mare, le banchine del molo ex Italsider, oggi Ilva.

Prima gli uomini, i lavoratori erano qua dentro come formiche in una foresta di fumo nero, fuoco, fiamme, capannoni, rumori sordi e, di colpo, assordanti botti da turarsi le orecchie. E tutto questo in mezzo a una città, qui a Cornigliano tra il mare che non vedi più con quelle banchine lontane e fredde e le case della delegazione, magari ancora costruite con uno stile anche un po’ pretenzioso, con il bucato stese nelle facciate laterali, nella pretesa di salvare il bianco dei panni lavati, dal Mostro sputa fumo nero: la ricerca della normalità a due passi dall’inferno. Questo era Cornigliano ieri, e oggi che cosa trovi?

Stanno i millesettecentosessantacinque dell’Ilva di Genova nella fabbrica residuale di quel vecchio inferno, una fabbrica che va avanti ancora per centinaia di metri, di fianco alla villa degli uffici direzionali, mattoni rossi , capannoni immensi, una cesura continua tra la città e una specie di nulla che arriva al “porto dell’acciaio”.

Aspettano, gli operai e gli impiegati, non solo le sentenze, i verdetti e le decisioni ma sopratutto che arrivino le navi da Taranto, cariche di materiale lavorato laggiù e da raffinare qua, secondo quel ciclo di produzione che sta per interrompersi come la vena di un corpo umano quando arriva il colpo, l’ictus.

Si interrompe quel flusso, la nave non arriva da Taranto a Genova, l’acciaio da lavorare non approda su quelle banchine, i laminatoi a freddo restano con la bocca spalancata a inghiottire nulla, qui e anche più su, a Novi Ligure, nell’altro stabilimento che aspetta il semi lavorato dalle Puglie, dove altri ottocento operai stanno come vedette a avvistare i treni o i tir che salgano l’ Appennino gelato di questo inizio inverno così freddo e così crudele.

Se si spezza la vena, il corpo della fabbrica muore, come il corpo umano se manca il sangue. Gli operai aspettano il nulla, le braccia conserte, la pazienza esaurita, le assemblee sempre più tese, i sindacalisti che ragionano nella tempesta tanto forte che così non l’avevano mai vista.

Qui rischia tutta l’immensa fabbrica, non un reparto, non una lavorazione.

Ora dentro alla fabbrica in piena mobilitazione cova non più la brace infernale dell’altoforno, ma la rabbia incandescente di quei millesettecentossessantacinque operai, che è pronta a esplodere, ma si trattiene da se stessa, aspettando quella nave.

E allora dalla fabbrica gli operai escono e puntano il cuore della città che non è lontana e si mettono in corteo: davanti i mezzi pesanti, le autogru, i messi semoventi che sono capaci di caricarsi a bordo i coils, quei giganteschi gomitoli di acciaio sbarcati dalle navi e da far inghiottire, appunto, nel ciclo freddo. E dietro loro le tute blu, dietro le bandiere della Fiom, rosse e piantate sui camion come l’Hister, appunto quel grande mezzo meccanico che conquista il centro la città e si piazza davanti alla Prefettura. Puntano la sua benna sul portone chiuso del palazzo di governo, come un ammonimento, un assedio.

Gli operai alla guida del gigante, che porta come fuscelli 35 tonnellate di acciaio, fanno cadere quella benna sull’asfalto nobile della strada centrale della ex Superba, con un rumore sordo che qui non rimbalza nel vuoto dell’inferno di fumo dell’accieria, ma nel ventre elegante dello shopping e fa tintinnare le vetrate dei negozi chic, che corrono a tirare giù le saracinesche davanti a questa occupazione che è diversa da ogni altra occupazione, perché la gente, anche quella che passa frettolosa e un po’ spaventata, è solidale con gli operai, sta con loro senza distinzione di classe, di ceto e di ruolo se ancora esistono. Se muore quella fabbrica, moriamo un po’ anche noi……

E così se il traffico si blocca intorno anche per ore, nessuno suona il clacson e urla contro i picchetti che fermano la circolazione e sembrano fermare il battito di cuore di Genova.

Gli operai aspettano di muoversi ancora, stanno come quegli indiani dei vecchi film western che appoggiavano l’orecchio al terreno per sentire se arrivava qualcuno. Nemici o magari rinforzi. Solo che ora le orecchie stanno appoggiate ai telefonini in linea con Roma, in linea con Taranto e il suono che si attende non è quello di una cavalcata roboante di zoccoli frenetici ma solo quello di due parole che potrebbero sembrare una preghiera esaudita: “Si lavora”.

Non si lavora: il decreto non è bastato, ora ne arriva un altro per superare l’ultimo verdetto dei giudici che bloccavano sotto sequestro i materiali semilavorati, miliardi di acciaio depositato nei magazzini di Taranto.

Il tam tam sul filo dei telefonini aveva fatto risuonare la minaccia di mille posti subito congelati a Genova e cinquecento a Novi: la conseguenza della decisione dalla gip di Taranto, Paola Tedesco, che aveva negato il dissequestro.

Nel gelo della fabbrica i sindacalisti fanno calcoli quasi infinitesimali per permettere al ciclo di non fermarsi mai, anche se Taranto è ferma, anche se la nave con i rotoli di coils non arriva, anche se il governo cade, anche se la siderurgia italiana, che è rinata qua esattamente sessanta anni fa, anno del Signore 1952, potrebbe essere sul punto di esalare l’ultimo respiro, anche se Cornigliano sembra un fortino abbandonato.

Facendo la somma dei contratti di solidarietà, delle ferie da smaltire, dei tagli che si possono fare con gli organici nella giungla della legislazione del lavoro, Genova può resistere fino al 7 gennaio senza fermarsi del tutto, aspettando Babbo Natale, Gesù Bambino e la Befana, oltre quella maledetta nave da Taranto.

L’Ilva fa sapere che fino alla sera del 24 dicembre ci sono da lavorare i rotoli neri, quelli più vecchi e quasi inutili, ma che permetteranno alla fabbrica di non arrestarsi, alle macchine di restare accese.

Là dove, in quel 1952 della fondazione dell’acciaieria brulicavano quasi quattordicimila operai e dove, nell’inizio degli anni Ottanta, ce ne erano ancora quasi settemila in attesa delle leggi sulla siderurgia che avrebbero smagrito l’Italsider e garantito la classe operaia di ammortizzatori sociali elastici come molle per attutire il primo cataclisma dell’acciaio, oggi sibila un Natale di gelo e attesa quasi disperata, ma ferma.

A fianco della Villa Bombrini, dove ci sono gli uffici Ilva, in un grande magazzino riallestito ci sono gli studi cinematografici di Genova Commission con le cineprese, le telecamere, le sale regia: uno spazio già riciclato della ex grande fabbrica ai suoi confini più occidentali verso il centro della città, verso la foce del torrente Valpolcevera, quello che si intasava per i residui della lavorazione dell’acciaio, dei quali il terreno trasudava.

Chissà cosa potrebbero filmare i registi di Film Commission se uscissero a puntare i loro obiettivi sugli spazi perduti del Mostro che sparava fuoco e fiamme e acciaio liquido? Filmerebbero il silenzio e il vuoto che riempie piazzali pieni di container abbandonati uno sopra l’altro, trasportati qua dalle banchine del porto: scatoloni di ferro al posto delle colate di acciaio. Filmerebbero le praterie deserte fino alla banchina, alla quale dovrebbe attraccare la nave dei sospiri di acciaio.

Nell’epoca d’oro di Genova, dell’acciaio e del Mostro di fuoco, quando il mercato dell’acciaio tirava come un treno e l’altoforno sputafuoco incendiava la notte e il giorno di Cornigliano, a quella banchina deserta c’era la fila di navi e le tonnellate di materiale da lavorare aiutavano tutto il grande porto di Genova a battere i record di traffico. Si faceva la sottrazione per capire a che punto era veramente lo sbarco delle merci: se non levavi dalla somma le navi e le tonnellate dirette all’ Italsider, avresti pensato che quello era il porto più importante dl Mediterraneo intero e che, anzi, poteva fare concorrenza ai grandi scali del Nord Europa, Rotterdam, Anversa, Amburgo.

Capito quale era la potenza dell’acciaio e il peso della città, che allora poteva chiamarsi ancora veramente Superba: il grande porto pubblico, il grande stabilimento dell’acciaio intestato alle Partecipazioni Statali dell’Iri. Dieci dodicimila braccia a caricare e scaricare le navi tra camalli della Culmv e Cap, il Consorzio del porto e i settemila dell’Italsider. Oggi il porto è privato e l’acciaio anche e gli spazi si confondono ma non si calpestano, anzi si aprono le voragini nelle quali anche la Generazione Nutella potrebbe perdersi, se decidesse di marciare dentro alle mura sbriciolate del Superstabilimento. Che si fa oggi, anno 2012 quasi 2013? Si aspetta la Befana di una nave da Taranto. Per ora.

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Alberto Francavilla