GENOVA – Come la deposizione dalla croce di Cristo: le nove bare scendono dalle spalle dei guardiamarina in alta uniforme, dei colleghi piloti, degli amici, sui nove catafalchi di fronte all’altar maggiore della Cattedrale di san Lorenzo, nel cuore dei caruggi, nel momento più lento e doloroso di funerali che Genova non aveva mai visto.
Calano una a una, queste bare delle vittime della tragedia, provocata dalla Jolly Nero e dal crollo della torre dei piloti, la seconda “Lanterna” di Genova, all’imboccatura del porto. Scendono dalla croce della loro morte sul lavoro, improvvisa e ancora inspiegabile, Daniele Frantantonio di 30 anni di Rapallo, Davide Morella di 33 anni di Biella, Marco de Candussio di 44 anni di Lavagna, Giuseppe Tusa di 25 anni di Milazzo, tutti e quattro militari della Guardia Costiera, Michele Robazza di 31 anni di Livorno , operatore radio dei Rimorchiatori Riuniti, Sergio Basso di 50 anni di Genova, operatore radio dei piloti, Maurizio Potenza, 50 anni di Genova, e il Maresciallo Francesco Cetrola, 38 anni di Salerno.
Le posano, queste bare avvolte nella bandiera tricolore con le insegne della Marina, sui catafalchi fasciati di rosso, una ad una, in un silenzio impressionante, che è seguito a sei minuti di applausi, quando i feretri in fila sono entrati in processione nella grande chiesa, piena di una folla veramente affranta: a destra i parenti delle vittime, dignitosi, composti, non un urlo, non un pianto che rompa la liturgia essenziale, i canti del lutto e della speranza cristiana, l’organo della cerimonia, che nessuno avrebbe voluto celebrare, a destra le cosiddette autorità, il presidente Giorgio Napoletano commosso, dritto e fermo, la giovane presidente della Camera Laura Boldini, il ministro della Difesa Mauro, che pregherà intensamente e visibilmente per tutta la messa.
Scendono dalla Croce della loro vita spezzata in pochi secondi, nella notte più buia della città, quando la poppa alta sessanta metri della Jolly Nero ha colpito la torre faro mandandola in briciole come se fosse costruita di carta e ha travolto loro che stavano lavorando alla sicurezza del grande porto, ai movimenti delle sue navi che entrano ed escono nel numero di 14 mila all’anno, con traiettorie e rotte e manovre ripetute automaticamente.
Quella manovra, quella routine si è rotta di colpo, come un cuore che perde il ritmo dei suoi battiti millenari e quelle vite di marinai, piloti, radiotelegrafisti, sono precipitate nell’abisso nero come la pece delle acque del MoloGiano, la banchina a Levante del grande porto, verso la bocca di ingresso, schiacciate tra le macerie di cemento e ferro e cristallo e acciaio, sprofondate nell’acqua cupa in una notte di calma piatta beffarda, nessun vento da Nord, o da Sud neppure il libeccio frontale e cattivo che increspasse il mare dentro ai moli.
Le bare si posano una per una e ogni volta che ciascun picchetto d’onore si allontana dal “suo” feretro è come se il dolore della deposizione si replicasse. Una, due, tre, quattro, cinque…… in quel silenzio di tomba come se la grande Chiesa trattenesse il fiato, il presidente Napolitano in piedi, rivolto verso le bare, i chierici sull’altare, con i paramenti del lutto impietriti anche loro, come se non fossero neppure loro più uomini di preghiera, di fede, di speranza.
Solo un catafalco rimane vuoto e al posto della bara ci sono un cappello da marinaio bianco con la visiera nera, una foto e un pallone da basket. Quello è il posto di Gianni Jacoviello, 33 anni, l’unico i cui resti mortali non sono ancora stati ritrovati dai sommozzatori, dai palombari che da otto giorni si immergono e risalgono da quella tomba nera, sotto la banchina, che ha visto la tragedia.
Quella ricerca a tentoni di notte e di giorno nelle acque profonde non più di quindici metri, ma nere, dove sono affondati i detriti del crollo, aveva fatto rimandare questi funerali perchè si voleva piangere, pregare tutte insieme le vittime dell’incidente finora più imprevedibile e inspiegabile.
Ma poi di fronte alla difficoltà di ripescare quell’ultimo povero corpo i parenti degli altri nove sciagurati ragazzi, piloti, marconisti, hanno acconsentito e così c’è quel posto vuoto in mezzo alle altre bare, di fronte all’altare dove lenta come la processione dei morti sale quella del cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, che celebra insieme a quattro vescovi e a una scheira di alti prelati, di chierici, tutti parati in un lutto che non è solo quello dei paramenti viola, ma anche di una cerimonia essenziale, quasi glabra nella liturgia, nelle letture scelte con il Vangelo di san Luca, 12-35- 50, che ammonisce di stare vigili, che il Signore può arrivare in ogni momento.
Come è arrivata di colpo la poppa di quella portacontenitori della flotta Messina, trainata dai rimorchiatori Spagna e Genua della flotta dei Rimorchiatori Riuniti nella notte ferale alle 11,30, mentre i marconisti trasmettevano, i piloti controllavano, i centralinisti comunicavano in quella torre sessanta metri sopra la banchina, sopra l’acqua, sotto le luci della città.
Quella città ora è ferita al suo cuore, nel suo porto, nella sua storia e un po’ sta dentro a questa cattedrale e un po’ fuori, nei caruggi e nelle strade storiche, che la circondano come in una ragnatela, in un silenzio che non è naturale, dove si strozzano non solo i rumori, le grida del porto vicino, poche centinaia di metri più sotto o nelle piazze del centro, dove tutti si muovono come al rallentatore, fino dalla mattina.
La città assiste dietro alle transenne al passaggio dell’auto presidenziale con le bandierine sui parafanghi, alla incredibile processione dei nove carri funebri e applaude, addolorata, ma anche come interdetta perchè di questa tragedia non c’è ancora una spiegazione.
Ci sono le due inchieste della Procura della Repubblica, che indaga il comandante della nave e il pilota che era in plancia con lui e delle autorità amministrative, ma nessuna luce fende il mistero di quella notte che resta buia come le acque, dove cercano il corpo dell’ultima vittima.
Chi ha sbagliato? La nave dei Messina che usciva di poppa dal suo ormeggio e ha fatto l’evoluzione per girarsi di prua verso l’imboccatura del porto, magari a una velocità superiore ai due nodi e mezzo previsti?
O i rimorchiatori che la trainavano, con due funi da poppa e da prua e che dovevano allinearla alla nuova rotta di uscita? O ha sbagliato chi ha costruito o lasciato costruire quella torre piloti nel 1997, in quel punto a filo di banchina e non magari qualche metro più indietro, al riparo dai colossi del mare che ora sono tanto alti da montare sui moli, da sfidare ogni costruzione: il gigantismo navale, quello che oscura i porti e le città. O ha sbagliato chi ha costruito quella torre con materiali tanto fragili che è bastato un colpo , come una codata di acciaio per far crollare tutto in pochi secondi?
Un video registrato da una telecamera poche decine di metri sopra il livello del porto, trasmesso dal Tg Regionale della Rai ha mostrato a tutta la città quel colpo, quel crollo istantaneo.
Per questo la città, i suoi uomini di mare, i suoi armatori, i suoi piloti, i suoi infiniti mestieri che girano intorno alle banchine, sono come stupefatti incapaci di spiegare sia gli errori che la serie incredibile delle coincidenze: quella nave, quella notte, avrebbe potuto picchiare contro altri venti chilometri di banchine, di moli, di pennelli, senza che succedesse nulla e invece tutto è avvenuto là, con i rimorchiatori che spezzavano una fune con il pilota che urlava al comandante: “Non hai acqua, non hai acqua, vai in macchina!” Che vuol dire: accendi il motore, metti in moto quel colosso da 45 mila tonnellate, una nave del 1975, vecchia forse troppo vecchia, revisionata da un cantiere spagnolo, che forse aveva qualche guaio.
Ma è tutto registrato nelle intercettazioni che la Procura sta vagliando, nelle carte che gli avvocati della flotta Messina e dei Rimorchiatori riuniti hanno incominciato a tirare fuori, in uno scontro legale già durissimo, che promette un altro capitolo nelle guerre secolari dentro al porto.
Ma ora è il momento della preghiera del dolore e il cardinale Bagnasco nella sua omelia, anch’essa glabra, sobria, invita gli uomini del porto a dare una prova di “bontà” nel risolvere una tragedia così grande, nell’affrontare la situazione perché non si ripeta più. Sembra un po’ schiacciato nel suo scranno il cardinale, con il piviale viola, la mitra candida calzata sullo zucchetto, il pastorale impugnato come fosse un’ancora cui aggrapparsi quando invoca la Madonna della Guardia, la protettrice della città che sta nel Santuario alle spalle di Genova, con la gran parte degli ex voto che raffigurano tragedie di mare, naufragi, affondamenti, siluramenti a cui qualcuno è scampato e sale a ringraziare sul sacro Monte.
Qua non è scampato nessuno e nella chiesa silenziosa, dove i pianti dei parenti sono si soffocano, l’emozione più forte arriva quando alla fine della Messa si legge la preghiera del marinaio, che finisce chiedendo una benedizione per chi “giace in fondo al mare e attende la tua luce”.
Sembra un messaggio per chi non è ancora riemerso dall’abisso di quella notte nera, il povero Gianni Jacoviello.
Funerali così Genova non ne aveva mai visti, neppure quando l’hanno colpita le catastrofi delle alluvioni, che nel 1970 fcero quasi quaranta morti, neppure quando erano i terribili anni di piombo, inaugurati proprio qua con l’omicidio del Procuratore generale Francesco Coco e della sua scorta, nel giugno del 1976 e la città si svegliò con il mostro del terrorismo.
Oggi la tragedia viene dal mare e dal porto che sono l’ombelico della città una volta chiamata Superba.
Quando la processione delle bare riparte e i picchetti d’onore si tirano sulle spalle i corpi delle nove vittime, il silenzio si rompe e ripartono gli applausi, ma sono applausi paradossalmente “silenziosi”, come uno scroscio leggero sui tetti dell’ardesia grigia, di cui è fatto il cuore di Genova o come le onde del mare, che si frangono con un movimento continuo.Ci vogliono molti minuti perché le bare escano dalla grande Chiesa, sotto un cielo carico di pioggia e entrino nei carri funebri, nove furgoni carichi di corone di fiori, che si muovono tra due ali di folla attonita.
Esce della navata principale anche tutta la famiglia Messina, gli armatori della Jolly Nero, che è venuta al completo a affrontare una cerimonia così dura. Escono i rappresentanti dei Rimorchiatori Riuniti. E giù in porto continuano le ricerche del ragazo Jacoviello per un’altra notte.