GENOVA – Girano tutti lo sguardo da quella parte, si fermano con la moto e mettono i piedi a terra e guardano là, verso il mare, verso il porto, verso il molo Giano e la torretta dei Piloti che non c’è più, abbattuta dalla Jolly Nero della compagnia Messina. È un po’ come le Due Torri di New York, che il giorno dopo non è che un cumulo di macerie, anche se l’ha abbattuta una nave amica, anche se è un incidente incredibile, anche se siamo nel cuore del Grande Porto, quasi alla sua imboccatura. Si fermano le moto, le auto, perfino le bici sempre più fitte dei pedalatori da crisi, sulla grande balconata di Genova, dietro il porto a Levante, verso la Fiera del Mare, sopra gli stabilimenti muti e silenziosi delle Riparazioni Navali.
Piazzano teleobiettivi e telecamere i network televisivi nazionali e locali. Frugano con l’occhio elettronico in quella selva di cantieri, stabilimenti, colossi di scafi di navi in costruzione o in riparazione, di fianco alle nobili banchine dello Yacht Club, il Circolo velico più antico d’Italia, che fa un po’ da scorta d’onore a quella torre abbattuta.
Era successo lo stesso quarantatrè anni fa quando il mare, il porto e la sua diga erano diventati lo scenario di un’altra grande tragedia, così diversa da questa dei sette morti, due dispersi, quattro feriti e una città portuale ko dell’8 maggio 2013. Allora lo spettacolo era ancora più visibile, perché la London Valour, una piccola nave inglese aveva imprudentemente gettato l’ancora al largo di quella diga, senza calcolare che stava arrivando una tempesta di Libeccio, il vento cattivo che spazza il cielo, ma alza onde spaventose e prende quel porto frontalmente.
La nave era finita contro gli scogli in un mare di petrolio uscito dalla sua pancia, i marinai un po’ si erano buttati tra le onde ed erano morti, imbalsamati dalla pece nera del liquido, un po’ erano stati salvati da un eroe, il comandante Enrico dei Vigili del Fuoco, che sfidando la tempesta con un elicottero che sembrava una mosca, li aveva ripescati uno a uno, statue di pece, estratte dall’inferno nero delle onde.
Per un porto di millenni quarantatrè anni sono niente e allora i figli, i nipoti, i nipoti dei nipoti di quelli che assistevano muti con il silenzio tragico e l’immobilità di un popolo di marinai al naufragio della London Valour sono oggi lì, a guardare se i soccorsi riescono a trovare i corpi dei due dispersi nelle acque nere sporche di Molo Giano, sepolti in una tomba incredibile tra le macerie di cemento della torre, l’acciaio, il vetro delle strutture di salvaguardia, i liquami di un porto che stanno scavando da anni per rendere più profondo, i suoi fondali per far arrivare navi più grandi, come se non fossero già giganti queste portacontainer cinesi, russe, arabe, e di ogni altra bandiera, se non fossero quasi spaventose queste navi da crociera alte settanta, ottanta metri, lunghe 450 della Costa Carnival, della MSC, della Royal Caribbean, che sfilano a bordo banchina e oscurano il cielo e l’orizzonte.
Per tutta la notte i sommozzatori si sono buttati in quel nero inchiostro con i fari in mano, le fotoelettriche accese fuori, a cercare il sergente Gianni Jacoviello, 33 anni della Spezia, uno che era stato già tanto generoso da partire per l’isola del Giglio quando il comandante Schettino aveva fatto la sua bravata, guidando la Costa Concordia sugli scogli e cercano il maresciallo Francesco Cetrola, 38 anni, di Santa Marina in Provincia di Salerno.
Gli altri sette li hanno ripescati da ore e da quasi un giorno da quel gorgo imputridito e altri quattro stanno nei letti dei due ospedali di Genova Duchessa di Gallliera e Villa Scassi di Sanpierdarena. Si salveranno, come si è salvato con le sue forse e una avventura da film dell’orrore e del catastrofismo più spinto Raffaele Chiarlone, 36 anni sottufficiale della Marina, che era intrappolato nell’ascendore della torre, insieme a due colleghi.
L’ascensore è crollato dopo che la cabina è precipitata sotto il colpo di maglio della poppa della nave killer, la Jolly Nero della flotta Messina. L’ascensore è volato in acqua con i tre marittimi dentro, è sparito in quel gorgo nero. Chiarlone è riuscito a sgusciare dalla cabina, passando attraverso le vetrate infrante, ma era sotto il livello dell’acqua e sotto due massi di cemento che erano come un sarcofago. Si è rituffato sotto e ha trovato una via d’uscita per sbucare in superficie, in mezzo ai detriti, ai pezzi della torre sbriciolata, di fianco alla prua immensa della Jolly Nero, appena strinata nella parte sinistra dal colpo contro il cemento della torre e della banchina. E si è salvato: “Perchè devo diventare padre e non potevo morire in quel modo”, ha spiegato, mentre lo ripescavano con un braccio rotto, da una barca che vagava in quell’inferno.
La città trafitta al cuore del suo porto guarda dalle balconate delle strade, dai tetti, dalle rotonde della sua parte di Levante, anche senza vedere bene il buco nero della torre, e il lavoro costante dei sommozzatori, della gru che sostiene un pezzo della scala di sicurezza, l’unica struttura rimasta in piedi e che non può crollare ora addosso ai soccorritori. Guarda come per darsi un perchè a quello che appare ancora inspiegabile agli uomini del porto e del mare, e delle navi grandi e piccole.
Quella torre, quel fungo alto cinquanta metri, con in testa l’ufficio di controllo, la torre che monitorava le entrare e le uscite dal porto, migliaia e migliaia nel corso di un anno, che si allineava quasi per altezza ai ponti più alti dei colossi del mare, che gli sfilavano sotto il naso e che guardava dall’alto i milioni di barche e barchette, che come nugoli di mosche e scie bianche, imboccavano l’ingresso del Grande Porto, era il luogo simbolo delle pulsazioni regolari del porto, il pacemaker del traffico, il regolatore.
Non c’è più ed è come se quella Genova affacciata sul mare da due millenni, abituata a guardarlo da ogni angolo della sua geografia stupenda, colline, strade in salita, creuze a perpendicolo, banchine per ventidue chilometri, con fiducia, ma anche con la dovuta riverenza, avesse perso la sua bussola principale.
Gli armatori Messina della flotta del Jolly sono disperati. Hanno tante navi con quel nome e i colori diversi che sono pezzi della storia marinara ed anche di polemiche. Discussioni, come il Jolly Rosso delle battaglie sull’inquinamento, ma hanno anche Jolly Arancio, Indaco, Giallo, Cristallo, Marrone, Quarzo, Smeraldo…
Li ha traditi quello Nero e non ti sanno spiegare perché. Tiene gli occhi bassi il presidente del porto di Genova, lo spezzino Luigi Merlo, insediato da sei anni nel Palazzo che governa quel Porto e che si sta battendo da anni perché adegui le sue strutture alle navi giganti, alle loro manovre, ma in una città lenta, anche quel processo è lento.
Soffre da lontano il genius loci Renzo Piano, archistar ma, sopratutto appassionato di questo porto, del suo disegno, della sua storia e che aveva avuto l’incarico di tracciarne un nuovo water front, per dipanare meglio il rapporto tra quelle banchine oggi colpite a morte e il mare, il suo mare. E a Federico Rampini, in una intervista su Repubblica, spiega la nostalgia per quei moli unici, brulicanti nella storia dei secoli, di bastimenti che entravano e uscivano e che suo padre lo portava ad ammirare proprio lì a Molo Giano, dietro all’imboccatura, da dove se ti giri verso la città vedi il perdifiato delle banchine che per venti chilometri si srotolano verso Ponente, avvolgono e proteggono la città, come una barriera sicura e indirizzano le navi a entrare in quella grande fabbrica che è, appunto, il porto.
Rispondono senza rispondere i magistrati che indagano sulla sciagura e che si trovano a misurare eventi e manovre marittime tradizionalmente automatiche e improvvisamente diventate letali, distruttive. Il procuratore capo Michele Di Lecce, un magistrato posato, tranquillo, annuncia che ci sono due indagati il comandante, il genovese Roberto Paoloni di 63 anni e il pilota Antonio Anfossi e che ce ne potrebbero essere di più. Spiega, lui che non è uomo di mare, come quella manovra di uscita della Jolly Nero poteva essere stata anche un po’ irrituale, seppure spesso usata.
La nave, trainata dai rimorchiatori lascia di poppa il suo approdo, viene portata verso l’imboccatura del porto e poi girata verso la banchina per poter affrontare l’uscita con la prua. In questo movimento l’inerzia di quelle 45 mila tonnellate è fortissima (guarda la rotta) per i cavi dei due rimorchiatori e se non parte il motore della nave per invertire l’abbrivio che porta lo scafo verso la banchina, l’impatto è imparabile. Così è stato. La portacontainer non ha potuto avviare i motori e lo scarocciamento l’ha portata contro la banchina dove si affacciava la torre faro.
I rimorchiatori chiedono insistentemente di “andare” in macchina, di far partire il motore, che non si accende. Questo risulta dalle intercettazioni e dagli interrogatori, non da quello del comandante che ha preferito non rispondere per ora: “Sono troppo sconvolto”, ha spiegato con la testa bassa. Spiegherà.
L’accusa o meglio l’ipotesi di reato è di omicidio colposo plurimo, ma c’è anche quella di attentato alla sicurezza dei trasporti. Non è solo questo che appare, mentre Genova si affaccia sul suo porto ferito.
Il porto è anche fatalità imponderabile, una specie di legge non scritta del mare che colpisce quando non l’aspetti, perché il ritmo biologico delle onde, delle navi che vanno e vengono, degli approdi, della navigazione, delle rotte, sembra come il battito di un cuore, il passare delle stagioni, l’ineluttabilità di una giornata dopo l’altra. Perché quella nave, che esce dal porto, diventata ingovernabile, dei venti chilometri di banchine del porto di Genova va a colpire l’unico punto nel quale, in quel momento, alle 23.30 della notte, ci sono uomini, marinai, piloti, da uccidere.
Perché quel gioiello dell’Andrea Doria, nella notte del 26 luglio 1956, nella nebbia della isola di Nantucket, davanti a New York, incrocia lo spaccaghiaccio svedere Stockholm che la sperona e l’affonda e uccide i passeggeri e gli emigranti?
Perché un’esplosione devastante fa scoppiare il ventre della petroliera Haven, al largo di Genova, nell’aprile del 1993, e provoca un’ondata di petrolio che ancora inquina le coste liguri a venti anni di distanza?
Il mare, il porto sono anche sotto la responsabilità degli uomini, ma dipendono da leggi non scritte, dal destino micidiale e millenario. Per questo quelli che si affacciano sul porto, nel giorno del lutto e del dolore, guardano e tacciono e basta uno sguardo a dirsi quello che non si può dire.
Le inchieste, gli uomini, gli avvocati, i giudici, i tecnici, gli assicuratori hanno pane per i loro denti oggi. Ma la città piange. In silenzio.