La spietatezza dello show mette a nudo tutto: lo sguardo un po’ perso di Omar oggi in quelle foto di vacanza con la sua nuova compagna e la sicurezza di lei quando la Panicucci le chiede: “Ma non pensa che, una volta libera anche Erika, non possono tornare tra loro due i vecchi sentimenti?”. Come se in mezzo non ci fossero quel lago di sangue, quelle novantasette coltellate e anche quella coltre di silenzio che il padre di Erika con un coraggio da eroe ha messo intorno alla vicenda, sopra la sua famiglia straziata.
“Non temo che tornino quei sentimenti, sono sicura del mio futuro con lui, vogliamo un figlio, speriamo che sia una femmina e le daremo il mio nome, non Favaro, così non si porterà dietro quel passato”, si difende la ragazza, restando incollata alla sua poltrona tv in uno studio che applaude solo quando la intervistatrice la incalza, la pressa con il ricordo pesante, pesantissimo della tragedia.
“Lui non mi ha mai parlato di Erika. Mai. Neppure una parola”, confessa con un moto di orgoglio Debora. E i veli cadono anche da lei, da Erika attraverso il filtro delle sue confessioni alle amiche che disegnano quello che è ancora il mondo di Erika, lontano ancora ma non per molto da quello di Omar oggi, il mondo di un carcere minorile, diventato poi un carcere vero, quello di Brescia allo scattare della maggiore età , poi quello della Comunità di recupero, le amiche, le prime uscite, la laurea con 110 e lode in filosofia su Socrate, la partita di pallavolo: il lento cammino verso una normalità . Via un pezzo di mistero e qualche segreto intorno alla protagonista di quella vicenda che i giudici della Corte di Torino, condannando lei a 16 anni e Omar a 14 anni, il 30 maggio del 2002, hanno definito “uno degli episodi più drammaticamente inquietanti della storia giudiziaria e minorile del nostro Paese, per efferatezza, per il contesto e per la personalità degli autori e per l’apparente assenza di un comprensibile movente”.
Ma non c’è ancora abbastanza nelle confessioni e nell’intervista tv per capire. Erika a ventisette anni sorride dalle foto del settimanale, felpa rossa sotto un giubbotto di pelle, le mani nelle tasche dei jeans, Erika fuma con le mani sui fianchi, ripresa durante un corso di fotografia con le amiche nei permessi dalla detenzione, i capelli lunghi, neri, gli occhi leggermente segnati. Occhi dentro ai quali guardi, cercando qualcosa che non trovi.
Così come scavi nelle sue “confessioni”. “Mia madre mi manca da morire, vorrei tanto che fosse con me”, racconta lei alle amiche aggiungendo i sogni che fa. Poi ci sono gli incubi, gli urli, se stessa vestita di nero che urla. Un passato che questa ragazza di ventisette anni, di cui dieci e mezzo passati rinchiusa in carcere e in comunità , cerca di chiudere in un cassetto. Il racconto che il giornalista di Panorama, Carmelo Abbate, è riuscito a ricostruire in assoluta esclusiva, è ricco, completo: Erika che guarda la Tv, che sceglie Mtv, che si è commossa davanti a Benigni a Sanremo, sopratutto quando lui ha detto che “se vuoi realizzare i tuoi sogni, ti devi svegliare”.
Quali sogni ha una ragazza-donna in quelle condizioni, a parte gli incubi che sbucano da quel cassetto nero? Anche l’amore, se è vero che Erika racconta di quando vedendo passare sotto una finestra un gruppo di ragazzi, si “prende una cotta” per quello che aveva già visto al “Beccaria”,  l’istituto per la correzione dei minori a Milano si è come innamorata.
E sogna, sogna dopo un incontro di cinque minuti con lui, senza sapere ancora che lui è un cocainomane, un rapinatore seriale. Poi lui esce dal carcere e sparisce. Erika piange, fino a non avere più lacrime, come una ragazza “normale”. Ora Erika, fuori dai sogni e dal lento cammino fuori dal pozzo nero, deve fare ancora passi decisivi. Il primo è l’uscita dalla comunità dove si trova ora, già prevista a gennaio. Sarà difficile e suo papà Francesco De Nardo, l’ingegnere, che è come un santo in questa storia di Novi che non si scrosta dalla croce, vorrebbe che fosse graduale.
Ne discutono, nelle visite settimanali che il padre ha sempre fatto, senza perdere una volta, in silenzio, attento a ogni momento delicato della vita di questa figlia che è rimasta la sua famiglia per intero dopo la sciagura di quel febbraio 2001. L’altro passo è “andare da sua madre”.
“Questo è il compito più difficile”, ha confessato alle amiche Erika, che sa come da lì solo la sua vita può ripartire. Rimorso, pentimento, ammissione di avere fatto “quello”. Dalle amiche filtra una confessione parziale. Lei e Omar erano sotto l’effetto della cocaina, è stato lui a colpire. Quando racconta il momento della tragedia Erika ha gli occhi vuoti,spenti, come se avesse rimosso.
Andare a pregare su quella tomba, forse, potrebbe essere il momento di dire tutta la verità . “Un fatto demoniaco – ripete don Valentino, che ora fa il parroco a Salice Terme nella chiesa di Cristo Re, nella strada in salita sopra le Terme- che ricorda la legge di Dio, diversa da quella degli uomini”.
“La legge di Dio è quella del perdono”, ammonisce il parroco. Perdono: quello che il padre di Erika Francesco, ingegnere alla Pernigotti, ha esercitato dal primo momento, senza mai mollare, settimana dopo settimana, portando i fiori alla sua bambina, facendo da tramite tra lei e le amiche, non cambiando neppure casa, restando solo, aggrappato a quello che restava della sua famiglia, il cimitero e il carcere minorile, continuando a lavorare, a pregare, senza smarrimenti.
Senza veli, se non il suo silenzio. Lo stesso silenzio che c’è intorno alla chiesa di Cristo Re, su a Salice, dove il don di quella tragedia Valentino Culaciatti ti accoglie con le braccia larghe del perdono della legge di Cristo, così diversa dalla legge tormentata degli uomini. Don Valentino ha ampliato il sagrato della sua piccola chiesa con una piazza intitolata proprio a san Valentino, non per onorare il proprio nome, ma perchè è il santo protettore dei giovani e anche perchè non succedano più storie come quelle di Omar e Erika, laggiù a Novi Ligure.
