Ammettiamo che la consegna degli ottanta assegni del macroscopico sovraprezzo non sia avvenuta. Resta l’esorbitanza del prezzo: quella casa pagata 1 milione e 650 mila euro?
“Non sono mica matto”, si scalda Scajola, “non sono ricco e volevo ben vedere cosa compravo e quanto lo pagavo. Ho fatto fare un’indagine prima dell’atto definitivo, una indagine immobiliare e veniva fuori che quella casa, un mezzanino di 180 metri quadrati, con le finestre a metà, le inferriate, mica un attico d’oro, valeva una cifra tra i 650 mila e i 750 mila euro. E io avrei firmato e consegnato assegni per far crescere quel prezzo fino a 1 milione e 650 mila euro? Ma 750 mila euro era già una cifra consistente per le mie tasche…Quando è esploso lo scandalo ho fatto fare un’altra inchiesta immobiliare, molto più approfondita, ho passato in rassegna, tutti i contratti di acquisto e di vendita e perfino di locazione della zona, quell’area che guarda il Colosseo, dove ci sono ben 5.000 finestre affacciate sul monumento, mica solo le mie. E’ venuta fuori più o meno la stessa cifra: da 650 a 800 mila euro. Per questo pensavo di avere fatto un bell’acquisto…”
Onorevole non basta, ti viene da dire. Quel giorno del rogito gli assegni erano lì, sono passati di mano, sono finiti sui verbali della Banca d’Italia. Rifacciamo la scena di quelle firme di quell’incontro e ricostruiamo cosa è successo nel suo ufficio al Ministero anno 2004. Perchè è lì che è stato fatto l’atto notarile…
Scajola si alza in piedi e mima la scena del rogito, nella sala delle riunioni del Ministero dell’Attuazione del Programma, il suo dicastero di allora, quello dove era rientrato dopo le dimissioni, due anni prima dal Viminale, un ufficio non grande in via della Mercede, una specie di dependance di palazzo Chigi. Scajola mostra di essere uscito dalla porta del suo ufficio personale e di essere passato nella sala riunioni dove lo attendevano le venditrici, le sorelle Papa e il notaio Napoleone. Racconta che per prima cosa si era scusato perchè non era andato ad accoglierli sulla porta, come era uso fare per educazione e poi si era seduto capotavola a un lungo tavolo di cristallo.
“Ci ho pensato mille volte a cosa era successo dopo la lettura dell’atto. Io avevo dato i miei assegni e la parte in nero di 150 mila euro, ho firmato, ho ascoltato e me ne sono andato. Gli ottanta assegni del sovraprezzo? Non sono mica pazzo. Ci fossero stati 80 assegni in più da consegnare uno per uno, dopo averli firmati, quanto tempo ci avrei messo? Mezz’ora, di più… Io avrei firmato, il notaio e le venditrici avrebbero controllato… Mica stavamo giocando a Monopoli. Dopo, a scandalo esploso, mi hanno detto che per difendermi avrei dovuto dire che non mi ricordavo, che non avevo capito, che mi ero sbagliato, che avevo fretta.
Anche Berlusconi me lo ha detto nel colloquio tempestoso che abbiamo avuto allora e io gli ho urlato che non sapevo mentire come lui e forse ho anche esagerato, urlandoglielo che io non sono un bugiardo… Lui ci è rimasto male, ma poi ha capito, hanno capito che mi avevano fregato, che ero in trappola.”
L’ex ministro non può dirlo, nella sua foga di difesa, che se l’operazione dei 900 mila euro fosse avvenuta qualche tempo dopo, magari nel 2006 quando il Governo Prodi -Visco avrebbe sparato le norme sulla tracciabilità dei pagamenti, quegli ottanta assegni ( se c’erano veramente) avrebbero lasciato una scia lunghissima e tangibile, perfino ufficiale nell’atto notarile, obbligato dalla nuova norma a registrare assegno, numero, importo accanto a tutto il resto. Se Scajola ha ragione e tutto avvenne “ a sua insaputa”, ah come sarebbe venuto bene un meccanismo simile.
Invece degli assegni “proibiti”, là sulle carte dell’atto di via Fatugale, non ci poteva essere traccia e vale la parola, se c’è stata, di venditrici e notaio, registrate dai giornali con virgolette e assenti dai verbali dei magistrati.
E allora perchè il ministro decide di dimettersi dopo giorni di roventi polemiche, di attacchi sui giornali, di “sputtanamenti” a tappeto, se è convinto di avere ragione?