GENOVA – Una piccola galleria di un centinaio di metri nella pancia di una collina spelacchiata alle spalle di Arquata Scrivia, comune a cavallo di Genova e Alessandria sull’Appennino ligure piemontese. Alla vigilia di Natale gli operai ci lavorano in tute bianche e sopra piccole gru per controllare la sicurezza della volta e lo stato della sede stradale che l’attraversa e le luci che la illuminano.
Nel silenzio umido della campagna un po’ anonima sembrano piccole formiche in un buco che non si sa dove porti. Invece, dall’altra parte della galleria, si vede la luce del sole invernale che trapassa la collina e traguarda un’altra galleria. Ecco lì, silenziosi e quasi segreti, i lavori che Genova attende da 100, qualcuno dice 110 anni, incominciati con le opere preparatorie di quello che si chiama Terzo Valico, che i nonni battezzarono “Direttissima Genova-Milano” e i bisnonni in camicia nera del Ventennio “Proposta Autonoma delle Celeri Comunicazioni”, insomma il collegamento ferroviario veloce tra Genova e la Pianura Padana.
Il buco, la galleria che collegherà la Superba, asfissiata dai container in sbarco nel suo porto con le linee ferroviarie dei collegamenti europei e transnazionali, ma sopratutto con Milano, con Torino, con la Svizzera.
Treni veloci, treni “capaci” di trasportare merci e passeggeri su una linea adeguata ai tempi moderni con le gallerie più grandi e il passo dei binari favorevole al salto in giù dalla collina al mare. Trenta minuti, anche meno, là dove i tempi erano il doppio e sopratutto il sogno dell’Alta Velocità per collegare Milano a Genova, con un supertreno che bruci la distanza e il suo tempo di percorrenza fermo da centodieci anni a un’ora e quindici minuti, un’ora e mezza, quando va bene e prima che l’Impero delle Fs crollasse nel disastro che tutti conoscono.
I genovesi e i liguri hanno aspettato 100, forse 110 anni l’inizio di questa opera che buca un muro vero e proprio. A inizio Novecento i consiglieri comunali di Genova in marsina invocavano già: “A Milano, a Milano”, chiedendo collegamenti con la pianura dove far viaggiare la merce sbarcata sulle banchine genovesi, destinate al cuore produttivo dell’Europa e del Nord Ovest italiano. Negli anni Venti-Trenta, mentre il governo fascista impiegava solo tre anni a costruire a colpi di piccone e pala la autostrada Serravalle-Genova, tra gallerie e viadotti, quel “buco” ferroviario era diventato una chimera prima di essere dimenticato.
Negli anni Cinquanta e Sessanta della ricostruzione e del boom, mentre il porto di Genova rinsaldava i suoi primati mediterranei, lo auspicavano quel collegamento, ma senza insistere troppo, perchè si costruivano solo autostrade e in porto sbarcava la rivoluzione del container, quello scatolone che avrebbe mutato quasi geneticamente la storia dei trasporti nel mondo, riempendo le navi, trasformandole in giganti lunghi centinaia di metri, carichi all’inverosimile di quegli scatoloni, poi sbarcati e accatastati in pile da oscurare sui moli la vista del porto, del cielo e del mare stesso.
Fino a quando i camion, i Tir non venivano incolonnati verso le loro destinazioni a Nord, a Nord, come nello slogan del film di cassetta che furoreggiava ieri in Francia e oggi in Italia, riempendo autostrade, superstrade, strade, tangenziali, ma molto poco i binari delle ferrovie. Quei binari erano e sono largamente insufficienti, “incapaci” di far mettere sul “ferro” _ come si dice tecnicamente_ quel che viaggiava e viaggia, invece, su “gomma”, intasando il traffico delle città, delle autostrade stesse, inquinando, suscitando sconquassi, alimentando perfino le mafie dei trasporti, la violenza non solo degli incidenti ma anche quella dei banditi che assalivano i convogli come si faceva nel Far West, con le diligenze e i convogli postali, per rubare o imporre “pizzi”, tangenti sul trasporto.
Un treno più veloce, un Terzo Valico, oltre a quelli che già bucano l’Appennino, alle spalle di Genova e che sono insufficienti, pretendevano gli imprenditori e sopratutto i grandi liners del mondo, non solo di Genova, armatori, spedizionieri, agenti marittimi, brokers dei trasporti ingrassati con i traffici, pensando a un Eldorado genovese, rilanciato dalla privatizzazione del porto, realizzata a colpi di decreto e di spinte manageriali e di “lacrime e sangue” per i mitici camalli della Culmv genovese, quelli che l’appena compianto Giorgio Bocca chiamava i “sultani” dell’aristocrazia sindacale, costretti a rinunciare al loro privilegio fondamentale: il monopolio del lavoro in banchina.
Ma quel “buco”, quella linea ferroviaria di cinquantratrè chilometri, trentacinque in galleria, dalle spalle di Genova fino a Novi Ligure, non rientrava nei programmi, pareva dimenticato, troppo difficile. Fino alla metà degli Ottanta, quando tre “padri fondatori”, l’ex presidente degli Industriali Giuseppe Manzitti, l’onorevole Gianni Dagnino presidente della banca Carige e Ugo Marchese, professore di Economia dei Trasporti rilanciavano il Terzo Valico con l’idea di un Supertreno veloce che collegasse Milano a Genova in 30 minuti, linea nuova non solo nella pancia dell’Appennino, ma anche in pianura, con percorso parallelo all’Autostrada Ge-Mi.
L’idea e il conseguente progetto messo insieme con grande rapidità dai tecnici della Sina, una società finanziaria del Gruppo Autostrade, nasceva così nel bel mezzo della trasformazione postindustriale genovese dalla necessità di legare il mare di Genova, la sua chance turistico-climatica-ambientale al cuore pulsante della capitale degli affari e finanziaria.
Che sogno collegare la Superba con Milano così rapidamente, quando in Francia e Giappone nascevano i primo Tgv e che grande idea immaginare due città “simbiotiche”, l’una dove vivere e l’altra magari dove lavorare. Ma oltre al sogno c’erano anche i progetti concreti di sturare il porto e i traffici e di valorizzare la nautica da diporto, i centri direzionali, la “qualità della vita” in riva al Mediterraneo, fuori dalla nebbia della pianura.
Da quel Supertreno ai cantieri di oggi sono passati venticinque anni e dopo un inizio folgorante con tanto di progetto esecutivo di affidamento a un General Contractor, la società Cociv, della realizzazione dell’opera in concessione dalle Ferrovie dello Stato, è successo di tutto, a incominciare da Tangentopoli su cui il progetto si arenò, non perchè nacquero processi ma perchè si alzarono le pretese della politica che voleva mettere il becco nella maxioperazione, totalmente in mano all’Impero delle Ferrovie.
Da quel Supertreno, che aveva reintrodotto nel linguaggio attuale della politica e dell’economia genovese e ligure il Terzo Valico, a oggi sono passate, tanto per citare un altro film in voga nei primi anni Duemila, “Quattro matrimoni e un funerale” protagonista il mitico attore inglese Hugh Grant, “tre inaugurazioni e un funerale”, nel senso di cerimonie che celebravano l’inizio di lavori mai realmente cominciati e il funerale dell’opera stessa che tra un governo e l’altro, tra Prodi e Berlusconi non faceva un passo avanti, diventando, anzi, il ring dove la politica locale si affrontava in un duello sterile.
Nel frattempo il “treno ad alta velocità” diventava ”treno ad alta capacità”, per sottolineare la diversa funzione prevalente, quella di trasportare merce e container. Il progetto, sempre rimasto nella mani del Cociv, riconosciuto come General Contractor “ante litteram”, cioè prima delle gare europee, maturava anche i suoi costi, durante le liti nella compagine associativa che solo in questi giorni prende l’assetto definitivo con Impregilo e Gavio ( che ha comprato le quote Ligresti) in posizione dominante. Era veramente necessaria l’opera e chi l’avrebbe pagata?
Le domande si sono inseguite su e giù per l’Appennino, mentre la linea entrava, comunque, nei percorsi scelti dalla Unione Europea, corridoio 5 per l’esattezza, un pezzo della Lisbona-Rotterdam, una tratta per la quale gli svizzeri hanno già bucato con la loro efficienza non il morbido Appennino, ma la catena delle Alpi, scavando tunnel di cinquanta chilometri. E noi? E il Terzo Valico?
Ci è voluta la passione del commissario straordinario all’Opera, Vittorio Lupi, ex provveditore alle Opere pubbliche di Milano, per dipanare tutti i contenziosi tra Cociv e Rfi, aggrovigliati nei venti anni di attesa, di progetti, di cambi e di duelli politico-partitici e di lobbyes scatenate. Ci è voluta la persistenza di due o tre personaggi chiave della Genova di oggi, come il presidente della Carige, Giovanni Berneschi e il senatore, Luigi Grillo, spezzino e berlusconiano, fedele al progetto dalla prima ora, incurante anche dei processi sulla sua schiena, provocati anche dalla sua vicinanza all’ex governatore di Banca d’Italia Fazio, per impedire che quel funerale si celebrasse e che si turassero anche i “fori pilota”, già scavati dentro all’Appennino per “preparare l’opera”.
E ci sono voluti, sopratutto e miracolosamente in piena zona Cesarini, il governo Monti e il ministro dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture Corrado Passera per dare la spinta iniziale ai lavori.
A quattro giorni dal suo insediamento il governo dei tecnici in generale e Passera in particolare hanno fatto finanziare dal Cipe il secondo lotto dell’opera, per un miliardo e cinquecentomila euro (il primo lotto di 750 milioni era già stato stanziato dal governo Berlusconi). Di fronte a una spesa globale di 6 milioni e mezzo di euro per l’intera opera. Questo è il costo per costruire il Terzo Valico in un tempo che oscilla tra gli otto e i nove anni, ma procedendo con segmenti considerati utili uno per uno (denominati lotti funzionali), per non incorrere nei fulmini della Corte dei Conti, i cantieri hanno potuto aprire.
C’è chi dice che quella piccola galleria alle spalle di Arquata Scrivia, dove gli operai hanno incominciato a lavorare potrebbe essere l’inizio del primo Grande cantiere della Ricostruzione Italiana. Quale occasione migliore? Il progetto è definitivo, il General Contractor è pronto, gli accordi con Rfi, cioè le ferrovie sono firmati, i soldi per partire sono garantiti e c’è un vincolo già consacrato per i prossimi lotti, l’Europa lo vuole, anzi lo pretende. Che manca?
In una intervista di sei mesi fa il Commissario straordinario dell’Opera Lupi aveva precisato che, a lavori iniziati, si sarebbe dovuti partire con 500 assunzioni immediate per gli assetti logistico-legali-tecnici, senza contare gli operai delle aziende che vinceranno gli appalti per costruire la linea. Migliaia di posti di lavoro da oggi fino al 2020. Un miraggio?
Dopo Arquata Scrivia toccherà ai cantieri della Val di Lemme dove i “padri fondatori” dell’opera, d’accordo con l’allora ministro dei Trasporti, il genovese Claudio Burlando, avevano fatto scavare il “foro pilota”, in pratica un test del pezzo di tunnel più importante, quello che sbucherà quasi a Novi Ligure, provincia di Alessandria, dopo 35 chilometri di buio. Gli altri cantieri da aprire subito, alle spalle di Genova saranno propedeutici all’opera, strade, collegamenti per raggiungere le zone di scavo e per allestire i campi base dell’operazione che ospiteranno gli operai e i tecnici.
Comuni interi, come quello di Voltaggio, nel cuore dell’Appennino, cambieranno faccia ed economia, con l’arrivo dei cantieri. Succederà un po’ come in quei villaggi del vecchio West americano dove si costruiva la ferrovia e dove scoprivano le miniere d’oro. Questo è anche un po’ il timore del territorio dove gli ambientalisti e i governi locali stanno per schierarsi “contro” non con la forza e le intenzione dei no Tav della val di Susa, ma con propositi non certo pacifici.
L’opposizione al Terzo Valico ha sempre osteggiato, sostenendo l’inutilità dell’opera sia per il traffico merci che per quello dei passeggeri e sventolando uno sconquasso ambientale provocato dallo scavo di milioni e milioni di metri cubi di terra. Dove metteranno il materiale di scavo che uscirà dal tunnel? Il commissario e il General Contractor hanno già in mano la mappa, controfirmata dalla Regioni Piemonte e Liguria dei “siti” che ospiteranno il cosidetto “smarino”, il materiale scavato. Servirà a riempire una colossale discarica nell’immediato entroterra genovese e sopratutto a consentire importanti riempimenti nel porto di Genova, dove sono previsti nuovi moli e nuove banchine.
In fondo è lo stesso scopo: più moli, più banchine, più merce da sbarcare e poi da trasportare via, non più intasando autostrade e varchi dello scalo genovese, ma facendo viaggiare i nuovi treni su e giù per il Terzo Valico. Che i genovesi aspettano da 100-110 anni e che hanno visto inaugurare troppe volte inutilmente, per non essere oggi, all’inizio del 2012, almeno un po’ scettici. Ma se tutto ricominciasse proprio da qua, da quella galleria da presepe dietro Arquata, dove le tute bianche degli operai si muovono come piccole formiche?