L’Iran è nel caos. Nessuno ha il coraggio di dirlo, ma è guerra civile quella in atto. E davanti agli occhi del mondo si apre uno spaventoso vuoto di potere che potrebbe avere conseguenze ancora più sanguinose di quelle registrate negli anni del terrore khomeinista ed accentuatesi negli ultimi sei mesi, dopo le elezioni-farsa “vinte” dal fantoccio di Alì Khamenei, Mahmoud Ahmadinejad.
Nei giorni scorsi è stato versato tanto sangue nella Repubblica islamica. Nessuno sa che fine abbiano fatto i capi più in vista dell’opposizione, Moussavi e Karroubi. C’è chi dice che abbiano lasciato la capitale. I loro sostenitori e familiari smentiscono. Resta il fatto che da giorni non si mostrano più in pubblico. Intanto, la sorella del premio Nobel Shirin Ebadi è stata arrestata. E’ stato arrestato anche Ibrahim Yazdi, il primo ministro degli Esteri nel 1979 di Khomeini. Il nipote di Moussavi è stato assassinato. La fondazione dell’ex-presidente Mohammed Khatami, ideologo della modernizzazione iraniana, è stata devastata. Decine sono i morti accertati nell’ultima settimana, centinaia i feriti, incalcolabile il numero degli arrestati.
La rivoluzione contro il regime dei mullah ha le sue vittime, i suoi carnefici. Il volto di Neda campeggia in tutte le manifestazioni. Ad esso si affianca quello di Alì Hussein Montazeri, anima del primo khomeinismo, morto in esilio a Qom una decina di giorni fa. Il presidente del Majilis, Larijani, si appella a Moussavi e a Karroubi perché facciano cessare i moti di piazza: richiesta che è impossibile accogliere. L’Iran è esploso. Nessuno controlla nessuno. Al punto che uno scalmanato ayatollah, vicino a Khamenei, può dire, incitando i radicali, che chi sta all’opposizione è “nemico di Dio”.
La follia s’è impossessata delle gerarchie sciite. E, dunque, è guerra civile a Teheran, a Shiraz, a Isfahan, a Tabriz. Il regime trema. Nessuno ha più paura di dire apertamente e a squarciagola ciò che fino a qualche tempo fa veniva sottaciuto: “Khamenei assassino, la tua leadership è illegittima”. Nel mirino c’è, naturalmente, il fantoccio della Guida Suprema: Ahmadinejad, l’usurpatore, il truffatore, il tiranno.
Il presidente, accecato dall’odio e terrorizzato dalla possibile defenestrazione, non tenta neppure un accomodamento con gli oppositori. Manda avanti i delinquenti in divisa da pasdaran e da basiji con il mandato di stroncare giovani vite, di minacciare i loro familiari, di chiudere giornali e radio, di creare un clima di terrore del quale lui stesso, con i suoi sgherri, sarà la vittima più illustre, dopo Khamenei, naturalmente.
Sarà questo, infatti, lo sbocco inevitabile della nuova rivoluzione iraniana, trent’anni dopo quella che riportò il clero sciita al potere ed alla cacciata dello Shah. Non ci sarà un Kapuscinski a documentarla, ma a tutti coloro che seguono attoniti gli sviluppi attraverso Facebook e Twitter, non sfugge che non è l’islamismo, per quanto da nessuno ufficialmente ripudiato, a guidare i rivoltosi, ma il nazionalismo iraniano.
Il regime degli ayatollah aveva fino a poco anni fa rappresentato un forte sentimento della nazione coniugandolo con la religione musulmana. Venuto meno il primo è fatale che cada con esso la seconda.
Gli iraniani vogliono riappropriarsi della loro storia, della loro cultura e della loro libertà. Quando accolsero Khomeini di ritorno dal lungo esilio parigino resero omaggio all’eroe della nazione che non si era prostituita agli interessi stranieri. Oggi Ahmadinejad e Khamenei hanno sposato la causa del terrorismo internazionale e difendono una casta corrotta, perciò hanno tradito l’Iran. Al fine di imporre la loro volontà hanno cancellato l’essenza dell’islamismo e dunque l’identità nella quale il popolo per trent’anni s’è riconosciuto. La religione è divenuta nelle loro mani lo strumento per legittimare la repressione, quando invece i padri dei ragazzi che oggi manifestano la consideravano come l’arma più potente per ottenere la liberazione.
E’ stato questo l’errore fatale del regime. Montazeri l’aveva capito, perciò nel 1989 fu costretto a riparare nella città santa di Qom, rinunciando a raccogliere l’eredità di Khomeini che lo aveva designato suo successore. La nazione e la religione dovevano e potevano stare insieme: dividendole il clero sciita di stretta osservanza si è giocato il ruolo che aveva. I mullah sanno che i primi ad essere spazzati via dall’onda che monta saranno proprio loro. Chi li difenderà? Forse i riformisti che hanno avversato, anche quelli che facevano parte del clero come Khatami?
S’illudono. La gente sa che la corruzione e la repressione hanno avuto il supporto teologico delle madrasse dove imam abietti predicavano l’odio e non li perdoneranno. Si salveranno, come hanno sempre fatto, in virtù del potere economico che detengono, i bazarì che potranno contribuire alla ricostruzione dell’Iran, ma molti pagheranno a caro prezzo i ricchi oboli versati agli ayatollah. Riformisti, conservatori, rivoluzionari, affaristi: s’intrecciano e si affrontano tutti.
E’ una guerra civile anomala quella che si sta dispiegando a Teheran. Nel palazzi del potere si fanno calcoli e quelli di Khamenei non tornano. Come non tornano neppure quelli di Karrubi, di Moussavi, di Khatami. Ognuno sa di dover pagare un prezzo. Presto potrebbe non esserci più un potere riconosciuto. Ed i giovani dell’Onda Verde non sapranno a quale leader votarsi. Su questa prospettiva lavorano, forse con un ottimismo mal riposto, i capi militari dell’esercito, dei pasdaran , dei basiji che hanno dalla loro le armi da usare al momento opportuno. Potrebbe venir fuori dal vuoto politico una giunta militare.
Sarebbe l’esito peggiore della rivoluzione. I possibili nuovi padroni potrebbero ottenere la legittimazione in quanto possessori dell’arma nucleare da far valere all’esterno e all’interno. A quel punto anche i mullah più riottosi dovrebbero sottostare alla legge della forza bruta. Difficile dire, in uno scenario siffatto, che fine farebbero i giovani che stanno animando la rivolta. Ma sarebbe impensabile una normalizzazione come quella che seguì trent’anni fa all’avvento del khomeinismo. Oggi i rivoltosi dispongono di una rete di sostegno e di complicità internazionali – ancora troppo timide per quanto riguarda quelle offerte dai governi occidentali – che potrebbero giocare un ruolo tutt’altro che marginale nella vicenda. L’ideale sarebbe che Khamenei, spintosi troppo il là nel sostenere Ahmadinejad, indicesse nuove elezioni legislative e presidenziali.
Sarebbe la sconfessione di se stesso, ma salverebbe l’Iran ed avvierebbe un processo di democratizzazione che in parte lo riscatterebbe dalle sue immani colpe. Ma non accadrà. Anche perché l’Iran è politicamente solo, o meglio in brutta compagnia: Hamas, Hezbollah, Al Qaeda. Nessuno degli amici del regime permetterebbe che una nuova leadership ritirasse gli appoggi di cui godono i padroni del terrore. Perciò sembra che l’Iran non abbia una via d’uscita. Ed invece dall’Iran ci si deve attendere di tutto.
Perfino che tra i giovani rivoluzionari emerga una nuova figura, che neppure immaginiamo, di leader. Non sarà un Grande Ayatollah, né un militare ambizioso capace di farsi proclamare Shah in Shah, re dei re, ma qualcuno che sappia parlare al popolo e reinventare la nazione iraniana senza rinnegare l’Islam.