Libia e mondo arabo in rivolta. Europa basta con gli espedienti prima che sia troppo tardi

L’Europa si è improvvisamente svegliata accorgendosi di non avere una politica mediterranea. In particolare se ne sono resi conto quei paesi, come l’Italia, che maggiormente avrebbero dovuto coltivare proficui rapporti politici con i dirimpettai della sponda Sud. O meglio, lo hanno fatto, ma semplicemente badando a non inimicarsi il tiranno di turno al quale hanno riconosciuto lo status di interlocutore per pur fini economico- commerciali, disinteressandosi del tutto dei diritti calpestati da regimi autocratici e corrotti. L’Europa ha così, suo malgrado, quando meno se lo aspettava, preso contezza che esiste anche un altro Nord Africa, quello della gente che ha subito la decolonizzazione non come conquista della libertà, ma come un surrogato dell’indipendenza pagata a caro prezzo per oltre mezzo secolo. Adesso che le masse giovanili nordafricane hanno preso il coraggio nelle loro mani ed hanno lanciato il loro destino oltre lo spazio mediterraneo, i governi europei non sanno bene che cosa fare.

Prima le loro classi dirigenti si facevano fotografare in posa con i tiranni di turno; oggi li rinnegano, ma dimostrano pure di non avere un concreto e coerente piano di sostegno alla nascente democrazia che potrebbe, da un momento all’altro, essere ricacciata nel buco nero dal quale, con l’entusiasmo di ragazzi armati per lo più di pochi computer, è uscita suscitando stupore.

Il fatto che dietro le rivolte di queste settimane non ci siano opposizioni organizzate, né il fanatismo islamista (almeno per il momento), lascia ben sperare. Ma è anche vero che soltanto i militari, come forza capace di garantire un minimo di ordine, sono nelle condizioni di determinare la transizione. Transizione che, per esempio in Egitto, tarda a decollare come testimoniano la ripresa delle violenze negli ultimi giorni e l’attivismo della polizia segreta di Mubarak. Neppure la Tunisia può dirsi al riparo da un ritorno al passato pur escludendo il richiamo in patria di Ben Ali. E per quanto riguarda la Libia, la situazione è maledettamente complicata. Qualcuno immagina una via d’uscita nella divisione del Paese; qualcun altro nell’occupazione militare con tutte le conseguenze che un intervento terrestre implica. Insomma, nessuno ha una ricetta per normalizzare il Nord Africa ed opporsi alle degenerazioni che le rivolte serpeggianti anche nel Mashrek potrebbero assumere.

Se l’Europa, ma anche gli Stati Uniti, avessero preso per tempo contezza di ciò che si agitava nel Mediterraneo meridionale, probabilmente si sarebbero creati i presupposti per normalizzare immediatamente le nazioni che si scrollavano di dosso decenni di vessazioni. Inutile, comunque, piangere sul latte versato, si dirà. È vero, ma a condizione che l’Unione europea elabori una strategia complessiva d’intervento se non vuole che il Maghreb si trasformi in un Afghanistan mediterraneo con evidenti ricadute nei nostri Paesi i quali già dovranno fronteggiare una crisi umanitaria che nel giro di qualche mese potrebbe assumere contorni apocalittici. Non è escluso che, se non dovessero consolidarsi nuovi equilibri, l’islamismo, nelle forme del settarismo terroristico soprattutto, non intervenga a svolgere la sua criminosa funzione di supplenza “somalizzando” i Paesi più esposti, alimentando, magari, anche la folle ambizione di creare un califfato mediterraneo.

Soltanto adesso facciamo i conti con la retorica delle politiche statunitensi ed europee nell’area mediterranea e mediorientale che ha favorito la percezione in Occidente di una realtà falsata dalle esigenze di una realpolitik da straccioni, paga soltanto di assicurarsi commesse petrolifere da dittatori sanguinari e tragicamente ridicoli. Le rivolte in Tunisia, in Algeria, in Egitto, in Libia, in Bahrein, ed i possibili rivolgimenti in Libano, in Siria, in Giordania, nello Yemen e perfino in Arabia Saudita – paesi questi ultimi che vivono giorni di trepidazione e le loro leadership cercano di correre ai ripari varando o promettendo timide misure democratiche – dimostrano che l’effetto domino temuto è diventato un vero e proprio “contagio” in un’area che si riteneva sostanzialmente stabile perché si faceva affidamento sull’inossidabile trasmissione del potere da parte dei dittatori ai loro familiari. E già questo avrebbe dovuto far sobbalzare le coscienze dei “custodi della democrazia”in Occidente.

Come mai nei Paesi europei non si è mai avuta la consapevolezza di ciò che poteva accadere dove il potere autocratico di alcune inossidabili nomenklature aveva impoverito le popolazioni e negato i diritti elementari? La risposta è semplice. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno sempre favorito, anche di fronte ad una evidenza che li avrebbe dovuti sconsigliare, la stabilità dei regimi che stanno cadendo o sono caduti a scapito dell’incoraggiamento, come era da attendersi dopo i fatti iracheni, di reali processi di democratizzazione che si stavano manifestando nell’area e che soprattutto l’Unione per il Mediterraneo, ormai agonizzante, non ha saputo o voluto vedere. Quel che non hanno fatto i politici occidentali ed i loro burocrati, l’ha fatto il web, vero motore delle prime avvisaglie di democratizzazione che speriamo possano irrobustirsi grazie anche alla maturità dei militari che dovrebbero resistere alle tentazioni di prendere il posto delle vecchie classi dirigenti e favorire forme di partecipazione popolare ai processi di ricostruzione dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo.

Se però le amministrazioni Bush e Obama non hanno rinunciato a una Freedom Agenda, che in qualche modo compensasse l’obbligata necessità di affari e relazioni stabili con i governi rovesciati o in crisi, l’Unione europea ha abdicato a svolgere un ruolo propulsivo nell’area, praticando pigramente un “bon usage” dell’autoritarismo che connotava quei regimi alleati dell’Occidente, forse per appagare uno svogliato neo- realismo più rassicurante e meno impegnativo.

L’esaurimento della politica euro-mediterranea delineata a Barcellona nel 1995, che prevedeva l’aiuto allo sviluppo politico dei regimi arabi verso la democrazia, non è stato superato dal varo dell’Unione per il Mediterraneo, che si è presto rivelata un “esperimento” fallimentare da tutti i punti d vista. I paesi europei hanno sempre proceduto in ordine sparso, concorrenti più che collaboranti. Di fatto la politica europea verso un’area di fondamentale interesse strategico ha finito per privilegiare i rapporti commerciali ed economici a scapito di quelli politici. L’Unione per il Mediterraneo, nata nell’estate 2007 per iniziativa dell’appena eletto Nicolas Sarkozy, e ratificata un anno dopo da tutti gli Stati interessati, con l’obiettivo di superare le divergenze emerse dal Processo di Barcellona, non è andata più in là delle buone intenzioni. Se il focus su progetti in specifici settori tecnico-economici (disinquinamento del Mediterraneo, autostrade del mare, autostrada del Maghreb, ferrovia transmaghrebina, piano solare mediterraneo, promozione delle piccole e medie imprese) sembrava l’approccio migliore e più funzionale per fare avanzare la cooperazione – rafforzata o a geometria variabile – tra i paesi dell’UE e i partner mediterranei, scindere il piano economico da quello politico si si è rivelato esiziale all’auspicato successo dell’iniziativa.

Erroneamente si è pensato che nei paesi nordafricani ed in Medio Oriente ci fossero solamente singoli individui coraggiosi di orientamento “liberale”, ma che non esistesse un’opinione pubblica capace di sovvertire l’ordine dei regimi autoritari. L’Europa adesso considera la nuova realtà bruscamente manifestatasi e non sembra che sappia bene che cosa fare. Sentiamo parlare molto di interventi umanitari e di contenimento degli effetti collaterali delle rivolte popolari. Speriamo non si tratti di espedienti di breve respiro. Accanto a tutto ciò occorre adottare politiche tese a diffondere la democrazia proponendola, non certo con la forza, come riferimento civile e culturale, prima che politico e fornire naturalmente aiuti atti a favorire la crescita di quelle società e di quei ceti disponibili all’avvio di un processo di partecipazione popolare nelle istituzioni e che guardano all’Europa con crescente speranza. Vasto programma certamente; ma con la politichetta furbesca e priva di ambizioni abbiamo visto quali risultati si ottengono. Meglio cambiare orientamento, dunque. E prima che sia troppo tardi.

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Marco Benedetto