Taranto chiama, Roma risponde. Così, le “quote rosa” diventano “rosse” o “arancioni” o “verdi”. Insomma, come più vi aggrada.
Attenzione, facciamo un po’ d’ordine, altrimenti i nostri lettori non si raccapezzeranno più. Dunque, ricorderete: qualche giorno fa, la giunta provinciale di Taranto è stata azzerata, perché gli assessori erano tutti maschi. Non era possibile, secondo il regolamento. Quindi, dimissioni ed ognuno a casa propria.
Ora, all’ombra del Colosseo, lo scenario si ribalta: al Tg5 la direzione decide “tout-court” che a condurre l’edizione delle 13 saranno soltanto donne. Non vedremo più Giuseppe Brindisi, Luca Rigoni, Salvo Sottile e Fabrizio Summonte. Perché? Rispondono i dirigenti: «Bisogna rinnovarsi». Ma, nei corridoi del telegiornale, si mormora diversamente e si dice con chiarezza che la rivoluzione avverrà perché si vogliono aumentare gli indici di ascolto. E le belle ragazze, come si sa, tirano.
Allora, via le barbe e dentro i visi deliziosi di giovani giornaliste. Apriti cielo! Succede il finimondo. Non solo perché a protestare sono i “silurati”. Ma perché a lanciare anatemi contro i responsabili di un tale gesto sono gli ascoltatori. O, meglio, le ascoltatrici. «Non è possibile», replicherà qualcuno. «In fondo, anche qui si stanno difendendo le quote rosa, quelle per cui in Parlamento fra maggioranza ed opposizione c’è un continuo braccio di ferro».
Già, ma al Tg5 hanno fatto i conti senza l’oste. In questo caso, senza l’ostessa (è un termine che si può usare?). Per la semplice ragione che a quell’ora, e cioè fra le 13 e le 13,30 sono soprattutto le casalinghe a vedere la tv e ad ascoltare il notiziario. Un errore strategico? Una grossolana disattenzione? «Nemmeno per idea», aggiunge stizzito il direttore, il notissimo Clemente Mimun. «Io credo che di tanto in tanto, è necessario cambiare aria. Il telespettatore ha bisogno di aria nuova e noi al suo volere ci pieghiamo».
Il ragionamento non fa una grinza. Sta di fatto, però, che la giustificazione non ha convinto chi protesta. I giornalisti si sono rivolti alla Federazione della Stampa che ha promesso un suo intervento immediato; i fedelissimi del Tg5 hanno continuato ad urlare, seppellendo (è proprio questo il verbo) la direzione con decine e decine di email.
Insomma, siamo alle solite. C’è chi invoca le “quote rosa” e chi, adesso, è per le “quote rosse”. Una specie di razzismo all’incontrario. Forse “razzismo” non è il sostantivo giusto, però spiega come queste diatribe siano completamente fuori posto. Antonio Di Pietro direbbe: «E che c’azzecca?”. Già, proprio così: Che c’azzecca? Non è mai una questione di uomini o di donne.
Il problema è un altro: è quello della meritocrazia e della professionalità che si invoca sempre a sproposito. Tutti si riempiono la bocca con questi vocaboli. Poi, al dunque, ognuno agisce a modo suo, infischiandosene della eventuale bravura o serietà delle “vittime”. Nel caso del Tg5, il ritornello si ripete con una sorte di controrivoluzione voluta dal direttore o dall’azienda.
Ma ci si è chiesti, innanzitutto, se i maschietti silurati erano validi? E se da un punto di vista professionale avessero le carte in regola? Ecco i primi interrogativi. Se così fosse, non vedo la ragione di un loro allontanamento. Al contrario, l’azienda avrebbe dovuto comunicare ai “quattro dell’Apocalisse” i motivi della decisione senza finzioni o tentennamenti. Invece, si è offerto loro un nuovo posto di prestigio, secondo la massima latina del “promoveatur ut amoveatur”. Se te ne vai senza sbraitare, ti premio.
No, non è lecito, non è giusto. In specie in una professione come quella giornalistica dove la bravura non la si può inventare o dove le raccomandazioni, prima o poi, si sciolgono come neve al sole.
Allora, per concludere: le quote rosa o rosse non servono e non aiutano a risolvere il problema. L’importante è scegliere tra i più valenti e dare a loro quel che meritano. Insomma, a Cesare quel che è di Cesare.