Le soluzioni più disparate si trovano invece negli statuti per quel che riguarda la delicata materia delle nomine. Le soluzioni delineate su questi temi sono più o meno convincenti: in linea di principio sembra preferibile che l’organo di governo deputato ad effettuare le nomine alla dirigenza degli enti regionali non eserciti poi la funzione di controllo sull’osservanza degli indirizzi e sul conseguimento degli obiettivi fissati negli atti di programmazione territoriale, controllo che potrebbe essere assegnato di regola al Consiglio regionale, mentre la vigilanza e il controllo sui singoli atti potrebbe essere assicurato dall’organo esecutivo. Si pone comunque il problema di assicurare che il Consiglio abbia voce in capitolo nelle nomine che, nella maggior parte dei casi, sono effettuate dalla Giunta.
A tale proposito, si ricorda che la legge statale prevede che sulla nomina alla Presidenza di alcuni enti, il Governo debba acquisire preliminarmente il parere della Commissione competente sul candidato proposto. Né la legge, né i regolamenti, né la prassi consentono lo svolgimento dell’audizione del candidato, che è conosciuto dalla Commissione solo attraverso la comunicazione del curriculum vitae. Per questo aspetto, la normativa regionale potrebbe fare dei passi in avanti, prevedendo procedure di hearings soprattutto nel caso di nomina a cariche monocratiche, l’espressione del parere a maggioranza qualificata e l’obbligo della Giunta di motivare l’eventuale decisione in contrasto con il parere espresso.
Le nomine rappresentano per la politica un oscuro oggetto del desiderio. L’impulso alla colonizzazione di aziende (incluse quelle sanitarie e ospedaliere), enti, agenzie (e anche direzioni regionali, attraverso l’impiego smodato della possibilità, consentita da una legislazione troppo permissiva, di assunzioni esterne), è irrefrenabile. E’ il terzo motivo che suscita un interesse distorto della politica per le vicende delle aziende regionali. La governance interna viene utilizzata, con approccio largamente bipartisan, per collocare personale politico, senza minimamente tenere conto delle competenze curricolari dei soggetti prescelti. Il modello dominante (Presidente, CDA, collegio dei sindaci, direzione generale) mostra, nella prassi, notevoli criticità. In particolare il CDA che, in aziende con un solo azionista (l’ente) e un unico cliente (l’ente), presenta forti elementi di ridondanza sotto il profilo funzionale.
Può avere una funzione utile nelle società in house formate da più enti (ad esempio la Regione ed altri enti locali del territorio). Ma quando la partecipazione regionale è totalitaria (o predominante), il CDA si riduce ad essere esclusivamente un organo di lottizzazione politica. I partiti di maggioranza tendono a ripartirsi le presidenze, quelli di opposizione ad avere rappresentanza minoritaria nei CDA. Molto spesso ciò avviene, come si è detto, a scapito della professionalità e della competenza manageriale che caratterizza generalmente la scelta dei componenti dei CDA delle società private. Particolarmente negativa è poi la tendenza a ripartire le deleghe all’interno dei CDA (rispetto ad un indirizzo collegiale). In questo caso si creano ulteriori compartimenti stagni, completamente estranei alla missione aziendale. La curvatura impressa a questo processo dal potere monocratico del Presidente spesso, anziché semplificare, inserisce un ulteriore elemento di stratificazione.
