Turchia. L’inarrestabile ascesa del ragazzino di Istanbul

Recep Erdogan

TURCHIA, ANKARA – Non è quindi affondato come molti in Turchia e fuori speravano. Impantanato negli scandali, azzoppato da una raffica di rivelazioni compromettenti, il ‘sultano’ sembra essere riuscito domenica sera a vincere il voto della sopravvivenza politica e ad evitare di chiudere così ingloriosamente la sua finora inarrestabile cavalcata politica. Una parabola tutta vincente per il ragazzino di Kasinpasa, il quartiere popolare di Istanbul di cui spesso Erdogan si vanta per ricordare ai suoi elettori di essere uno di loro, non uno di ‘quelli’ della elite ‘europea’. Un tentativo di carriera calcistica, poi la politica.

Nel 1994, a 40 anni, la conquista a sorpresa della poltrona di sindaco di Istanbul con il partito islamico. E’ l’inizio di una inarrestabile ascesa. E’ un Erdogan già dalla retorica muscolare ma anche ideologica. “La democrazia è come un tram – spiega – quando si è arrivati dove si vuole, si scende”. “Chi prende Istanbul, conquista la Turchia”, ripete volentieri Erdogan. Così d’altra parte succede anche a lui. Nel 2002 il suo partito islamico Akp vince le politiche. Erdogan diventa primo ministro.

Abilmente vara riforme economiche europee, da avversario si converte in sostenitore di una adesione all’Ue, incassa l’appoggio di Bruxelles nello scontro di potere con i generali kemalisti garanti della laicità dello stato – a decine finiscono in prigione accusati di presunti golpe. Lancia un’ambiziosa politica estera ‘neo-ottomana’. Il suo partito trionfa alle politiche del 2007 e del 2011. L’economia viaggia a ritmi di crescita ‘cinesi’, la Turchia è la 17ma potenza economica del mondo, Erdogan proclama la nuova ‘grandeur’ del Paese, prevede di restare al potere almeno fino al 2023, per i 100 anni della Repubblica di Mustafa Kemal Ataturk, il solo politico turco dei tempi moderni che ritiene ancora gli faccia ombra. Sposa la causa delle primavere arabe, rompe i rapporti con Israele, flirta con Hamas e Fratelli Musulmani, entra nell’asse sunnita con Qatar, Egito e Arabia saudita, si vede ‘grande leader’ del Medio Oriente, dove esplode la sua popolarità.

Ma nella primavera 2013 inizia un ‘annus horribilis’, un continuo precipitare dopo 11 anni di successi e di potere incontestato. La sua politica siriana aggressiva si rivela un boomerang. L’ex amico Bashar al Assad non cade, i ribelli sunniti ‘moderati’ da lui appoggiati sono soprattutto jihadisti, si incrinano i rapporti con Iran, Iraq, Russia e Egitto. In giugno esplode la rivolta di Gezi Park. Milioni di giovani turchi contestano la svolta autoritaria e l’islamizzazione del Paese imposte dal premier, rivendicano più democrazia e libertà. Quasi fosse un Assad turco. Erdogan ordina una feroce repressione. Muoiono sei ragazzi, migliaia i feriti. Dal mondo arriva una valanga di condanne. L’immagine internazionale del sultano si offusca.

Il 17 dicembre esplode la tangentopoli turca, che coinvolge decine di nomi eccellenti. Erdogan denuncia un tentativo di golpe degli ex alleati della confraternita islamica di Fetullah Gulen, lancia purghe di massa in polizia e magistratura per insabbiare le inchieste. Fa votare a passo di carica leggi liberticide per controllare il sistema giudiziario e imbavagliare internet. Blocca Youtube e Twitter. Ma le registrazioni compromettenti lo inseguono, e le accuse di corruzione, nepotismo, gestione opaca del potere. “Erdogan è ferito mortalmente, ha scritto prima del voto il politologo Ahmet Insel, ma non cadrà subito”. Il voto di domenica sembra dargli ragione.

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lgermini