ROMA – Il Corriere della Sera ha sposato un’utile campagna per il debito italiano in mano agli italiani, insomma perché siano gli italiani a compare i titoli di Stato nelle aste del Tesoro. Utile secondo ogni canone dell’economia e del buon senso: i titoli di debito di un paese detenuti dai cittadini di quello stesso paese rendono il debito stesso meno vulnerabile e configurano stabilità , si riduce insomma la quota speculativa della crisi del debito. Ma quella speculativa è appunto una quota, non la ragione ultima e preponderante della crisi. L’utile campagna può quindi generare utile effetto, responsabilità e orgoglio nazionale ma anche illusione. Soprattutto se affiancata da una montante e confusa fanfara che suona sulle note di una “autarchia del debito”. Fanfara che intona e ritornella nello spartito anche clamorose ingenuità e qualche ipocrisia.
Utile che in una eventuale “Giornata del risparmio italiano” le banche azzerino le commissioni che fanno pagare a chi compra titoli di Stato italiani, commissioni oggi oscillanti tra lo 0,10 e lo 0,50 per cento. Si è detta  disponibile Intesa San Paolo e Montepaschi rispettivamente con lettere al Corriere della Sera di Corrado Passera e Antonio Vigni. Utile l’iniezione di fiducia in se stessi che può venire alla comunità nazionale dal successo di una simile campagna. Meno utile la confusione che deriva dall’omissione di un dato di fatto: gli italiani già detengono circa la metà del debito pubblico italiano. E nessuna campagna, anche se di successo, può ragionevolmente mirare al successo di italiani che sottoscrivono altri 400 miliardi di debito di Stato nel prossimi due anni. Del tutto inutili, anzi leggermente sinistri, sono poi gli echi di autarchia finanziaria che pure si ascoltano a margine della campagna. L’idea che il debito ce lo compriamo noi e tutto va a posto è decisamente consolatoria e favolistica. Gli italiani si compreranno 1.900 miliardi di debito pubblico nei prossimi sette anni?
E, qualora lo facessero, non sarebbero i sottoscrittori di una colletta nazionale a favore della collettività e del bilancio pubblico. Chi, anche se di nazionalità italiana, va oggi o domani a comprare Btp a due, cinque o dieci anni incassa interessi annui tra il cinque e il sei per cento abbondante. Interessi che il Tesoro italiano tra un po’ farà fatica a pagare. Nessuno dei nuovi sottoscrittori porterà “oro alla patria”, l’oro viene retribuito ad alti tassi. Chi compra debito italiano fa un investimento a rischio remunerato secondo appunto il rischio. Nascondere questo “particolare” è singolare ipocrisia. Si può legittimamente sostenere che la creazione di una abbondante domanda di titoli di debito possa portare ad una limatura dei tassi. Ma in economia e anche in finanza non esistono pasti gratis: se il sistema politico e sociale italiano non mostrerà di saper aumentare il Pil, abbassare la spesa e quindi spegnere o almeno rallentare la fabbrica del debito, nessun passaporto italiano renderà il debito italiano meno rischioso. L’utile campagna del Corriere della Sera deve guardarsi da alcuni entusiasti sostenitori quali Giuliano Melani, l’imprenditore toscano che “basta che il portafoglio italiano si apra” o come Giuseppe “Bepi” Covre, imprenditore veneto che predica un leghismo finanziario e trova coerenza e continuità tra l’acquisto di Bpt e il protezionismo commerciale contro i cinesi. Sono entusiasmi da “finanza alle vongole”. La vera e unica maniera per gli italiani di comprarsi il debito è smettere di produrlo: in azienda chiedendo sovvenzioni pubbliche, nel sindacato opponendosi ad ogni riforma, nel seggio elettorale votando per chi lo alimenta. A meno che non si voglia e non si creda possibile rispondere alla carenza di “caffè straniero” con il “surrogato di cicoria”.