ROMA – Fabrizia Di Lorenzo, al suo composto funerale il vescovo Angelo Spina, amico di famiglia, davanti alla gente di Sulmona ha sommessamente scandito un pubblico lamento: “Fabrizia ha dovuto lasciare per trovare un lavoro questa terra senza speranza per i giovani…”. Parola di vescovo dunque sinceramente affezionato alla ragazza e subitaneo assenso dei notiziari che sull’emigrazione forzata prontamente titolavano: l’andare a lavorare in Germania presentato e lamentato come una disgrazia, una sofferenza, un sacrificio imposto dalle circostanze avverse e da chi non le rimuove.
Una delle testate televisive presenti al funerale di Fabrizia in un eccesso di zelo arrivava ad intervistare fuori della chiesa alcune anziane signore di cui una sintetizzava: “I nostri figli andati, mandati lontani, di fronte alla morte”. L’anziana signora va perdonata per il suo identificare un viaggio e un lavoro lontani da casa come l’anticamera della morte. E il vescovo va capito, da tempo i sacerdoti nelle loro omelie e dai loro pulpiti sentono il dovere di inquadrare il contesto sociale entro il quale amministrano i sacramenti. E quanto il vescovo ha detto piangendo Fabrizia è quanto gran parte del corpo civile, del popolo italiano in carne e ossa pensa. Ciò non toglie che il vescovo, i notiziari con i loro titoli, le anziane e addolorate signore e la gente che annuisce alla frase si sbaglino. In buona e ottima fede ma si sbagliano: andare a lavorare all’estero non è una disgrazia imposta dalla miseria e il lavoro nella terra in cui si è nati non è un diritto negato.
Fosse viva glielo spiegherebbe a voce la stessa Fabrizia, a tutti lo spiegava con quanto raccontava di se stessa sui social network. Non si sentiva deportata in Germania, non riteneva di essere stata scippata del diritto di un concorso e poi di un posto pubblico entro pochi chilometri da Sulmona. Anzi, lamentava questa Italia immobile, culturalmente, politicamente e socialmente immobile, sempre più innamorata della sua immobilità.
L’idea che il lavoro all’estero sia solo la disperata ultima chanche, quel che si fa partendo straziati per l’abbandono della terra e del borgo natii, che una qualche pubblica autorità che si rispetti dovrebbe garantire, provvedere al lavoro in loco, altrimenti la terra diventa “senza speranza”, l’idea dunque che sia la disperazione e solo quella a portare un italiano a New York, San Francisco, Sidney, Berlino, Dubai, Oslo…l’idea che un mondo giusto sia quello dove i figli non partono, parlano la lingua di casa casa e solo quella (magari in casa il dialetto), fanno il lavoro dei padri…
Questo rosario di idee e sentimenti è pensiero arcaico, soffocante, ossessivo e oppressivo. E’ il pensare, in buona fede, di una comunità che si sta spegnendo perché si chiude alla vita, all’esperienza, al miglioramento, all’eccellenza, alla speranza, sì proprio alla speranza caro vescovo. Perché la speranza per essere tale da migliorare e insaporire una vita non può essere quella di un posto alle Poste, al contrario è, da che mondo e mondo, di conoscere il mondo, farsi sorprendere dal mondo, con il mondo cimentarsi e magari affermarsi nel mondo.
Ma il vescovo Angelo Spina è buon pastore del suo gregge, lo conosce bene. E’ un gregge quello della società italiana del secondo decennio del terzo millennio che fugge i sentieri dell’innovazione, anzi diffida proprio dei sentieri e aspira a stare tutto il giorno e la notte nel recinto. Prova ne sia la naturalezza con cui il sistema della comunicazione ha accolto, veicolato e diffuso la “novella” per nulla buona, anzi sbagliata assai. La novella è stata: povera Fabrizia, costretta ad emigrare…No, Fabrizia nei suoi 31 anni aveva studiato, sudato e scelto (scelto!) di lavorare nel mondo. Era una donna colta, una cittadina europea, un’anima moderna. Non le si rende un buon omaggio raccontandola come un’emigrata a forza causa carestia. E non si dovrebbe predicare da nessun pulpito politico o giornalistico (qui il vescovo c’entra poco) che lavorare all’estero è una disgrazia.