ROMA – Primo: i licenziamenti i musicisti del Teatro dell’Opera di Roma se li sono cercati, li hanno chiamati. Come un calciatore che gioca molto duro in campo e che già ammonito continua a fare falli su falli. Il Teatro dell’Opera di Roma cui il Comune, cioè il contribuente, versa circa 20 milioni di euro l’anno all’inizio dell’estate era a un passo dai libri contabili in Tribunale, dal fallimento, dalla chiusura. Chiusura nonostante i soldi pubblici, chiusura perché del generale disastro finanziario della lirica italiana (344 milioni annui di soli stipendi a fronte di 190 milioni di contributo pubblico) l’Opera è la punta di diamante. Altissimi costi, poca produzione e produttività, un sacco di bugie di dirigenti, manager, sindacati e lavoratori.
Stava per chiudere l’Opera di Roma e l’unica per non chiudere era chiedere i soldi della “legge Bray” a favore della lirica. I soldi, ma anche le regole della suddetta legge. I lavoratori, in particolare musicisti e coristi, volevano i soldi sì ma le regole no. Si sono contati lavoratori e sindacati e hanno prevalso, sono risultati di più quelli che volevano l’applicazione della legge, accettavano che arrivassero i soldi in cambio, per farla semplice, di maggior produzione e produttività. Si firma l’intesa ma il sindacato autonomo e la Cgil non firmano. Anzi alcuni dei loro iscritti si incaricano nei fatti di rendere impossibile la maggior produzione e produttività. Anzi neanche la produzione e la produttività di prima: scioperi, assemblee, rifiuti. Di fatto boicottaggio.
Riccardo Muti si dimette, il maestro lascia l’Opera. Mette per iscritto che “non ci sono le condizioni”. Nonostante autonomi e Cgil del Teatro tentino in maniera spudorata più che sfacciata di affermare che Muti lascia per colpa dei “padroni”, l’evidenza, il nero su bianco attestano che Muti molla per disperazione indetta dal comportamento-boicottaggio delle maestranze, o almeno di un consistente gruppo di queste.
A questo punto i “padroni”, il Comune di Roma, il Consiglio di Amministrazione, insomma la mano pubblica ha tre alternative. Tornare all’ipotesi chiusura baracca e burattini per manifesta ingestibilità di ogni accordo e per non applicazione della legge Bray, aumentare le tasse ai romani per finanziare non solo in perdita ma in crescente perdente e in voluta perdita il Teatro, licenziare quelli che rendono impossibile tenere aperto il Teatro stesso. Come si vede, i licenziamenti i licenziati se li sono cercati.
Ma licenziamento giustificato non significa automaticamente licenziamento giusto e quindi arriviamo al punto due: in Italia si può o non licenziare?
Molti fanno giustificata confusione, altri ci marciano. In Italia si può e non da oggi procedere a licenziamenti collettivi motivati da giusta causa economica. Il famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori esclude la validità del licenziamento appunto senza “giusta causa”. Non esclude e non inibisce la possibilità di licenziare in ogni caso. Quelli che invocano l’articolo 18 come spugna che cancellerà i licenziamenti ci marciano, fanno finta di non sapere. L’articolo 18: con modifiche Monti/Fornero la giusta causa può essere anche di natura economica. Sta ad un giudice accertare se questa giusta causa economica sussista nel caso del Teatro dell’Opera. Deciderà entro 75 giorni. Potrebbe giudicare i licenziamenti conformemente motivati oppure no. In ogni caso il licenziamento collettivo per motivi economici non è di per sè vietato in Italia. Anzi è pienamente legale.
Punto tre: licenziamenti giustificati e anche legali. E allora perché continuiamo a chiederci se siano giusti? Perché il ministro della Cultura Enrico Franceschini e il sindaco di Roma Ignazio Marino espongono da giorni una “fase due” di cui i licenziamenti all’Opera di Roma sono solo il primo stadio del razzo che va in orbita. Espongono, difendono, auspicano e propagandano l’idea che sia buona e giusta cosa licenziare per poi far lavorare i licenziati non più da dipendenti a tempo indeterminato ma da collaboratori a tempo determinato. Sanno Marino e Franceschini esattamente quel che dicono? Valutano, apprezzano l’entità e il peso del principio che vanno a introdurre?
Ammesso che la “esternalizzazione”, così si chiama il prima ti licenzio e poi non finisci certo in mezzo a una strada ma lavori sempre per me però a tempo e da esterno, sia giusta e necessaria nel mondo e nel campo delle orchestre…Ammesso che così si evitano il circuito perverso e baro di stipendi moderati però indennità a pioggia che li fanno obesi, poco lavoro in chiaro e qualche lavoro in nero…Ammesso e non concesso che o così o la Lirica italiana chiude visto che già da sola si mangia più della metà dei soldi pubblici per ogni forma di spettacolo e qualcuno potrebbe chiedere perché tutti i soldi all’Opera e poco per il teatro e il cinema…Ammesso che la esternalizzazione sia oggi quel che serve nel settore viziato e vizioso, come si fa a non vedere che il principio della esternalizzazione se esternalizzato ad altri settori diventa qualcosa che scardina, sbullona i rapporti e i contratti di lavoro tutti almeno potenzialmente?
Licenziare se azienda va malissimo e tu boicotti: giustificato e legale. Licenziare così e poi riprenderti a lavorare come cooperativa o service: tutto da vedere e molti dubbi se sia socialmente ed economicamente “giusto”. Forse all’Opera di Roma sì dove più “giusta causa” di così non si può. Forse, forse lì. Ma il principio è dirompente e l’impressione è che Franceschini e Marini ci siano saltati sopra senza rendersi conto di cosa cavalcano. A meno che non sia più o meno tutta una più tradizionale sceneggiata all’italiana. Licenziamenti per spaventare, lavoratori che portano in piazza i figli a recitare il finire per strada, sindacati che obtorto collo trattano, licenziamenti che rientrano e musicisti che alla fine accettano di suonare anche più di poche volte al mese e che quando vanno in trasferta smettono di voler diaria (spese escluse) di 190 euro. Può anche darsi, ma non sembra, almeno finora.
Infine nota a margine: nella vicenda (chiamarla vertenza è nobilitarla troppo) Teatro dell’Opera la Cgil sta esplicitamente e costantemente con quelli della diaria a 190, quelli del farmi lavorare tutto l’orario e fuori orario è “attentato alla cultura”, con quelli che sono per la lotta dura contro il “padrone” che è nel caso in specie il contribuente che paga con le tasse l’Opera. Simmetricamente nell’altra vicenda dei dipendenti di Camera e Senato la Cgil sta esplicitamente e costantemente con quelli dei “diritti acquisiti”, con quelli del minimo a 100 mila euro è “esproprio”, con quelli che inventano l’inghippo del tetto sì agli stipendi ma indennità rinforzate e contributi fuori dal calcolo e del tetto, insomma facciamo un tetto finto e stiamoci sotto. Anzi no, la Cgil non si accontenta neanche del tetto finto, pure questo le appare “intollerabile attentato alla Costituzione”.
Considerando ancora la preclara dichiarazione di musicisti e coristi dell’Opera di Roma, preclara in termini di solidarietà tra i lavoratori, secondo la quale risparmiare certo che si deve ma licenziando la metà degli amministrativi e dei tecnici e non gli “artisti”, ci importuna la fastidiosa suggestione che l’acronimo Cgil debba essere riletto alla luce dei tempi contemporanei e dei rappresentanti di oggidì: Confederazione Generale Ingordi Lavoro.