Lucio Fero

Pd, ci si può iscrivere anche se maschi?

Pd o dell’obbligo urgente e dello stimolo impellente a dotarsi di anima e mente e immagine donna. Percorre tutto il partito, prende la momentanea forma dei capi gruppo parlamentari che devono essere donne, ma è qualcosa di più rutilante e ruzzante, è un vento che roteando spezzoni di volontà tende ad assemblare niente meno che una identità, un che cosa sia un partito e perché sia.

Pd, dunque la donna

Parità retributiva e parità di occasioni di lavoro e sul lavoro. Se ne è ancora lontani e sono obiettivi sacrosanti. Anche se raggiunti, non basterebbero. Va aggiunto anche welfare specificamente indirizzato alla condizione femminile. Ma dove sta scritto, in quale idea le radici e le fondamenta della convinzione-rivendicazione per cui nulla di questo si può fare davvero se a farlo non sono le donne per le donne?

Sta scritto e si fonda nella visione e nella cultura (e ora anche nella identità politica che il Pd vuol darsi) corporative della società. Corporativa, sì. Già, proprio corporativa. Ciascuna corporazione concorre alla cosa pubblica nel senso che rappresenta e promuove i proprio bisogni ed istanze. Impraticabile e impensabile secondo la visione corporativa della società una gestione di interessi e bisogni della corporazione di appartenenza se non per mano di membri della corporazione stessa. Leva (e non è poco levare) i Fasci ma in questa visione e cultura la Camera (e il Parlamento tutto) resta ed è quello delle “Corporazioni”.

Cittadina/o dissolti e disciolti

La cultura corporativa del corpo sociale ha come corollario ovvio e condizione necessario il dissolvimento della figura socio politica del cittadino/a. La Rivoluzione francese e poi le rivoluzioni borghesi di tutto l’Ottocento e poi le Costituzioni e poi le democrazie liberali del Novecento si identificavano con il cittadino/a. Che era tale senza distinzione di sesso, età, religione, ceto, razza…

Si diventava, si era cittadino della cosa pubblica quando e solo se non ci si identificava più solo e soltanto con la propria appartenenza e identità di ceto, razza, sesso, religione. Si era cittadino della res publica quando, soggetto ed oggetto di universali e costituiti diritti e doveri, non si era più cattolico, protestante, ateo, nero, bianco, maschio o femmina. Ora la differenza, l’appartenenza ad una differenza diventa identità.

La differenza di genere diventa cardine e garanzia di identità politica, la differenza diventa attestato di virtù sociale (se femminile) e di vizio sociale (se maschile). E’ pura e nitida teorizzazione ed applicazione della teoria e cultura corporativa della società, nulla a che vedere con la democrazia liberale.

Pd: non chiamatela democrazia

Non chiamatela dunque democrazia, con la democrazia liberale l’identità di genere non c’entra nulla, anzi la contraddice. Il cittadino della democrazia liberale non è né maschio né femmina, tanto quanto non è ebreo o cattolico, nero lo bianco, lappone o portoghese. Nella democrazia liberale si è cittadino a prescindere dall’essere agricoltore o operaio o imprenditore o parroco o rabbino o mulatto o gay o etero o uomo o donna.

Nella democrazia intesa come assemblee della rappresentanze concorrenti delle identità, nella democrazia delle corporazioni concorrenti o confliggenti, l’essere qualcosa invece conta eccome. E qui si è collocato il Pd, raggiungendo l’esito in fondo scritto di un percorso cominciato quando, avendo perduto la bussola e la mappa della classe (operaia) scelse di sopravvivere ed esistere come partito dei diritti.

Pd: partito dei diritti, tutti?

Ma un partito dei diritti è una formazione gassosa di un gas (i diritti) ad ampia velocità di espansione. Diritti, tutti i diritti? Anche quelli dell’intolleranza religiosa in nome del diritto di ogni cultura ad essere rispettata? Pure quelli dei dipendenti da aziende di pubblico servizio che servizio non erogano perché i dipendenti rifiutano di fatto le condizioni per erogarlo? Anche quelli delle comunità o comitati del No tutto e sì solo a ciò che innaffia l’orto di casa?

Un partito dei diritti, tutti i diritti, senza una corrispondente declinazione e mappa dei doveri sociali, un partito dei diritti dove diritto è ipso facto qualsia bisogno alla sola condizione che ad esprimerlo sia un po’ o un bel po’ di gente è, lo voglia o no, un partito che ha inglobato populismo e sviluppato autonomo ed endogeno populismo. La democrazia liberale del cittadino e non delle categorie sarà anche roba desueta e quindi divenuta improponibile, ma questa che il Pd manifesta attraverso il suo anelare a pensar donna è altra cosa dalla democrazia.

Somiglia più ad una idea del vivere associato dove si ingaggiano, magari si alternano alla guida del villaggio i gruppi di identità. Quello svantaggiato (nel caso le donne) recupera per mano femminile al comando. Inevitabilmente, è nella logica e natura delle appartenenze, una volta che recupererà ingiusto svantaggio, il gruppo identitario giunto fin lì deborderà e diventerà avvantaggiato. Per poi subire la revanche delle altre identità. Una visione sindacale della storia umana.

Pd: ma le donne, liberando se stesse…

Ma le donne liberando se stesse non liberano l’intera società?

No, quella era la classe operaia e poi alla fine non è andata proprio così. Proprio vero: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa. Quella che era una filosofia della storia, la contraddizione capitale-lavoro che non faceva dei lavoratori salariati i “buoni” ma la leva della storia, si è decomposta in una sociologia del costume secondo la quale le donne in quanto le “buone” della storia la storia la fanno buona se le metti al comando perché donne e in quanto donne.

Qui è approdato il Pd. E sì, ci si potrà iscrivere anche se maschi. Basterà un atto di contrizione (siamo un paese cattolico)e un giuramento di fede nella natura salvifica e taumaturgica del femminile e imperfetta e irredimibile del maschile. Contrizione e atto di fede (siamo un paese cattolico) nel nuovo culto laico delle madonne progressiste.

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Mino Fuccillo