Lettere di precari dolenti, il “pubblico” della scuola siamo noi

ROMA – “Eravamo il futuro, adesso ci rimuovono”…”Dopo venti anni lascerò a chi è al primo incarico”…”Supplente da una vita, di colpo non valgo più”…”Aspetto un posto dall’82, avrò la pensione minima”. Sono i titoli dolenti di quattro “lettere di precari” che La Repubblica usa per sostenere il suo titolo maggiore nella pagina di domenica  2 settembre: “Concorso, precari in rivolta: Noi la priorità. Cgil contro l’alt alle graduatorie deciso da Profumo”. Ed è una pagina verità, c’è dentro davvero un bel po’ della natura profonda, dell’essenza dell’Italia contemporanea.

“Lettere di precari…”. Francesca Spalla, 38 anni: “Siamo il 30% del corpo docente che regge la scuola pubblica. Se la graduatoria fosse vanificata salterebbe al fiducia verso lo Stato. Noi siamo già dentro la scuola, il meccanismo della graduatoria ad esaurimento prevede proprio che uno lavori per restare nell’elenco…”. Fiorella Mariantoni, 52 anni. “Ho girato 30 scuole…dopo 18 anni ho la mia professionalità. Sarebbe un paradosso se mi sorpassassero più giovani che non hanno mai insegnato”. Antonino Geraci, 59 anni. “Alla mia età non ho la minima possibilità di superare il concorso, sarei scavalcato dai candidati più giovani…”. Elena La Gioia, 52 anni: “Ma che politica è scartare i vecchi per far posto ai giovani?”.

Lettere e storie dolenti di chi ha lavorati in condizioni difficili, talvolta umilianti, per poco stipendio. Lettere di vittime. Ma anche lettere inconsciamente insolenti, di vittime che trovano la loro salvezza nel farne altre di vittime. Far girare a un’insegnante 30 scuole fino a portarla ai cinquanta anni e sfiancarla è crudeltà sociale ed è tortura estenuare un docente precario mantenendolo tale fino a 59 anni. Ma la remissione di questi supplizi non sta nel cessarli per chi li subisce da troppo tempo e cominciare ad infliggerli agli ultimi arrivati. Quando la giusta stanchezza e protesta per le sevizie subite si trasforma in diritto reclamato ad impartir sevizie allora il precario, sì anche il povero precario della scuola, si trasforma e muta da vittima in carnefice sociale.

Carnefice di chi? Della scuola pubblica in primo luogo. Rileggiamo la prima lettera: “Noi siamo già dentro e il meccanismo prevede che uno lavori per restare nell’elenco…senza graduatoria salta la fiducia verso lo Stato”. Chi scrive questa lettera individua la natura pubblica della scuola nel patto contratto tra lo Stato e i cittadini aspiranti docenti, un patto che dice che chi è “già dentro” prima o poi entra del tutto. La natura pubblica della scuola sta dunque nel garantire lavoro e posto a chi ha la più alta anzianità di precario, a chi ha preso per primo il numeretto nella lunghissima fila. Il pubblico della scuola, quello cui bisogna rendere “servizio” sono i 160mila precari “storici”. Non gli alunni, non la società: il pubblico sono i pubblici dipendenti.

Nelle altre tre lettere l’angoscia, la rabbia per l’essere “sorpassati”, sorpassati nella fila. Ma non è o non dovrebbe essere una fila, come allo sportello della banca o al banco salumi al supermercato. Le vittime di governi e partiti che creavano finta occupazione nella scuola, le vittime di sindacati che sono nati e cresciuti in nome del tutti dentro, basta metterci un piede, queste vittime oggi sono pronte a far strage della “tribù nemica” dei giovani. E insieme di ogni criterio di opportunità parlando di scuola, insegnamento e formazione. Dovrebbe essere pacifico per tutti che almeno nell’insegnamento l’unica graduatoria e classifica che contano sono quelle delle preparazione e abilità. L’età, l’anzianità di precariato pregresso possono e non possono essere indice di preparazione e abilità: chi si farebbe operare dal chirurgo con maggiore anzianità precaria messo in sala operatoria solo per questa “priorità”?

L’idea di sottoporre a vaglio e verifica preparazione e abilità di tutti, qualunque sia l’età anagrafica e a prescindere dalla anzianità di precariato, dovrebbe apparire a tutti come la cosa più sana e giusta per appunto un pubblico servizio come la scuola. Ma in questo paese intossicato l’angheria del precariato subito si trasforma in pretesa di un diritto infondato. Dice la Cgil scuola: “Considerano il lavoro una merce che si usa e poi si getta”. Cioè se non metti in cattedra un precario sei uno sfruttatore, uno schiavista. E quel precario lo devi mettere in cattedra perché…perché è precario e tanto deve bastare. E se c’è uno preparato e abile che però non ha il numeretto da precario, che aspetti il suo turno, magari da precario. E gli alunni e le famiglie e lo Stato si accontentino e si accomodino, il servizio pubblico della scuola lo gestiscono i sindacati.

Lettere di precari dolenti, autentica è la loro sofferenza, rispettabile è il loro lavoro, ma, se davvero sono loro il “pubblico” della scuola, ciò che nacque come diritto sociale, quello appunto alla istruzione pubblica, diventa diritto di categoria al posto. Corporazione, non sindacato: c’è differenza e una volta la Cgil lo sapeva, ora non più.

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Mino Fuccillo