
Studenti: tre su quattro semianalfabeti. Tragedia nazionale ignorata
ROMA – Studenti, studenti universitari: tre su quattro non sanno scrivere in italiano corretto, non conoscono né usano la grammatica. Non sanno cosa siano esattamente congiunzioni e avverbi e li buttano lì a caso in frasi sempre più orfane di logica espressiva. Ignorano, si arrangiano con i tempi dei verbi e gli aggettivi oltre che i termini sono figli di assonanze fonetiche e non appunto logiche-espressive. Insomma tre studenti su quattro, la gran parte degli universitari italiani quando scrive va a orecchio, ripropone nello scritto rumori in forma di parole, rumori di cui ignora il significato.
Di qui infiniti errori di grammatica e di conseguenza limitata capacità di comprendere e di esprimersi. In ultima analisi limitata capacità di vita associata, di relazioni sociali complesse. Scrivono male, anzi malissimo in italiano. Faticano quindi moltissimo a formalizzare un concetto al tempo stesso compiuto e coerente. Parlano la stessa sghemba lingua, pensano con lo stesso inadeguato linguaggio. Questo gli universitari, figurarsi gli altri giovani che all’Università non vanno.
Seicento docenti universitari hanno indirizzato una pubblica lettera al governo perché “intervenga”. E come mai potrebbe intervenire un governo su una situazione così estesa e radicata? I seicento individuano correttamente il luogo principe dell’eventuale e doveroso intervento: la scuola, a partire dalle elementari fino all’ultimo anno delle superiori. Intervento doveroso, di salute pubblica. Ma di fatto impossibile perché sarebbe privo di praticabilità concreta e soprattutto drammaticamente privo di consenso.
Nella scuola una pedagogia radicata, assurta nel frattempo a valore diffuso e condiviso tra insegnanti, maestre, sindacati, funzionari ministeriali, sociologi e pedagogisti appunto, ha da tempo stabilito che l’apprendimento di norme logico-formali quali la grammatica e la sintassi di una lingua sono utilità marginali quando non pesi ed orpelli. Fin dalle elementari le cosiddette “attività” hanno la meglio sull’apprendimento. La trasmissione di nozioni e competenze è tollerata, non di più che tollerata nel percorso formativo della scuola italiana standard.
La scuola-istituzione (corpo docente-ministero-sindacati-corpi intermedi professionali e disciplinari che le ruotano intorno) ha espulso dal suo mansionario e dalla sua missione l’alfabetizzazione rigorosa e progressiva degli alunni e studenti. E’ un fatto, vissuto da tutti ma ignorato, volutamente ignorato dai più.
La scuola come corpo sociali (alunni e famiglie) non si oppone e non protesta. Anzi collabora e plaude in una sua versione esclusivamente accuditiva della prole. Detta in soldoni, una scuola che non obbliga ad uno studio rigoroso e che non testa e valuta rigorosamente i risultati e gradi di apprendimento, questa scuola ad alunni (anche quelli che fingono di far politica) e famiglie (anche quelle che si sentono socialmente evolute/impegnate) piace. Piace così. Poi magari il ragazzo/a lo si manderà a perfezionarsi all’estero. Ma a quel punto sarà già e probabilmente definitivamente un semianalfabeta con titolo di studio.
Un governo che obbligasse (e come?) maestre e prof a privilegiare l’insegnamento e l’apprendimento di grammatica, analisi logica e sintassi troverebbe un corpo docente ostile all’idea e ormai inadeguato nella prassi, oltre che una burocrazia dell’istituzione scuola che farebbe resistenza per sopravvivere. Non solo, un governo che intervenisse perché la scuola esiga competenza linguistico-logica troverebbe l’opposizione, il contrasto, il dissenso se non la organizzata protesta di alunni e famiglie contro “il giro di vite autoritario”.
Quindi all’università arrivano e lì li trovano i docenti che oggi disperano giovani che per tre quarti sono semianalfabeti con il diploma. Usano la lingua singultante, meccanicamente giuliva, orecchiante e concettualmente afona che è quella a ben guardare corrente in televisione e sempre più nella cosiddetta comunicazione-informazione. Questa è la lingua che usano nel lavoro, nel pensare, nell’agire.
Uno su quattro non è semianalfabeta, uno su quattro sa leggere, scrivere, pensare a livello del suo diploma e poi della sua laurea. Soprattutto a livello doveroso per un cittadino consapevole di se stesso, del suo tempo, della sua dimensione e dignità. Uno su quattro fa milioni, qualcuno. E forse questo ci fa schermo.
Schermo rispetto alla tragedia nazionale, che altro modo di definirla non c’è, di ormai un paio di generazioni che vivono da semianalfabeti con titolo di studio. Tragedia nazionale non percepita, non vista, cui la pubblica opinione, la gente, non dà peso. Cui la stampa non dà rilievo. Cui la politica, se possibile, collabora. Se se ne vuole una prova si ascolti il linguaggio povero, misero, semianalfabeta appunto del ceto politico, soprattutto e sempre più quello giovane di qualunque schieramento.
I seicento scrivono: intervenga il governo, come fosse una Protezione Civile dopo un terremoto. Hanno per metà ragione: è come un terremoto. Ma pare proprio non ci siano più terreni stabili su cui ricostruire fondamenta: la società civile in ogni sua forma professionale e politica ha subito, anzi accettato, la dealfabetizzazione. Anzi spesso e volentieri se ne avvolge e ci si crogiola pure.