
ROMA – Era il 19 gennaio del 1946 quando partiva il primo convoglio dei “Treni della felicità”. Sulle carrozze c’erano e partivano da Roma 1.200 bambini, bambini tra i 4 e i 12 anni, delle periferie della capitale e, soprattutto, della provincia di Latina. In quei giorni nelle periferie di Roma si faceva la fame, la fame vera. E il basso Lazio era appena stato percorso e distrutto dalla guerra, letteralmente distrutto: avere un tetto per dormirci sotto non era una certezza, era una fortuna.
Partivano i 1.200 bambini per l’Emilia soprattutto. Ma anche per la Toscana e la Liguria poi partiranno bambini. Partiranno fino all’inizio del 1948, partiranno per due anni. Ne partiranno settantamila, partiranno moltissimi da Napoli, molti dalla Puglia, un po’ dalla Basilicata. Partiranno per l’Emilia, la Toscana, la Liguria, un po’ anche le Marche.
Dove andavano allora quei bambini, dove andarono nel corso dei due anni circa dei “Treni della Felicità”? Andavano in famiglie contadine, famiglie contadine delle Regioni d’Italia del Centro/Nord. Non Veneto e Lombardia però e vedremo perché. Andavano a stare presso queste famiglie contadine per qualche mese. Il tempo di ricominciare a mangiare, dormire al caldo, il tempo di conoscere una vita che non fosse solo di stenti e malattie. andavano e poi tornavano dalle loro famiglie, sfamati, curati, rifocillati nel corpo e nell’anima.
Da dove venivano quei settantamila bambini? Da Roma, da Napoli, da Bari, dal Sud. Da famiglie povere di una povertà oggi inimmaginabile. Alla partenza gli organizzatori dei “Treni della Felicità” regalavano a ciascun bambino un cappottino. Le madri toglievano al bimbo in partenza quel cappottino, glielo toglievano per darlo al fratello/sorella che restava, chi partiva, pensavano le mamme, ne avrebbe avuto un altro o comunque sarebbe stato assistito.
Venivano da queste famiglie alla fame e andavano presso famiglie che li sfamavano, da Sud a Nord. Partivano dall’Albergo dei Poveri a Napoli. Partivano da una Napoli dove nel 1947 su 15 mila bambini dai 4 ai 9 anni il 90% era rachitico, da una Napoli dove su 80 mila affetti da tracoma, 20 mila erano bambini. Venivano da una Napoli in cui era stato fondato un Comitato di salvezza dei bambini e nessuno trovava che la dizione fosse esagerata. Bambini orfani, bambini senza casa, bambini cui la famiglia non riusciva a dare letteralmente da mangiare.
Ma chi li organizzava i “Treni della Felicità”? I primi bambini, pochi, ad essere assistiti arrivarono in Emilia da Torino e Milano. Pochi, pochissimi portati presso famiglie contadini che li accoglievano. Era stata una donna, Teresa Noce, a dire a chi si curava di quei bambini “vai in Emilia, lì qualcuno troverai disposto ad accoglierli…”. Poi un giorno, saputo dell’iniziativa, Palmiro Togliatti disse o raccontano che disse: “Bisogna fare andare anche quelli del Sud”.
E allora l’organizzazione dell’Udi, l’organizzazione femminile parallela al Pci, e lo stesso pa
Anche e soprattutto al Sud i comunisti erano guardati con sospetto e sospetto è eufemismo. Al Sud in quegli anni i comunisti erano quelli che li mangiavano i bambini. Più prosaicamente la stampa della Repubblica di Salò aveva raccontato che gli eserciti anglo americani, in particolari gli inglesi “perfidi”, risalendo l’Italia rastrellavano bambini per mandarli in Russia. Cosa poi i russi di Stalin ci facessero con i bambini era lasciato all’immaginazione dell’inimmaginabile, ma neanche tanto. Insomma gli inglesi e americani rastrellavano bambini italiani, li mandavano in Russia e i russi, se andava bene, li usavano come schiavi. Per una, si fa per dire, pubblica opinione cresciuta e nutrita con “Sus l’ebreo” dove gli ebrei appunto erano nasuti e crudeli e crudeli perché nasuti e allevata con la certezza delle “armi segrete e invincibili” in mano Hitler e Mussolini, la storia dei bambini mangiati o quasi ci poteva anche stare.
Quindi, quando arrivavano queste donne, queste donne comuniste a dire: mandiamo i bambini qualche mese a mangiare e stare al caldo, molte mamme del Sud ebbero paura della menzogna che rubava e deportava i loro figli. Paura forte che passò solo per due motivi. Il primo: la fame. Poche cose sono più forti della fame, la fame è più forte perfino della paura. E il secondo motivo fu che qualche mamma andò a vedere lassù in Emilia e qualche bambino cominciò a tornare, tornava nutrito e in salute come non era mai stato.
Le parrocchie e soprattutto le suore che avevano osteggiato i “Treni della Felicità”, che avevano fiancheggiato la paura della deportazione dei bambini, dei comunisti/Erode, si trovarono allora delle mamme a Napoli che dissero “no a sti cap’i pezza” (testa di tessuto sta in napoletano per suora). E i bambini continuarono a partire per quasi due anni, ricevendo spesso alla partenza la prima visita medica della loro vita, ricevendo il cappottino con dentro scritto e cucito un numero per riconoscerli e ritrovarli all’arrivo…Ma il cappottino andava al fratello eppure all’arrivo quelle famiglie contadine trovavano, riconoscevano…Bambini che raccontavano di aver visto dal treno “il latte, non lo zucchero, no la ricotta” su tutta la terra. Era la neve che loro mai avevano visto.
Era un’altra epoca, un’altra Italia, un altro mondo. Un mondo dove si accoglieva e si nutriva come fosse la cosa più ovvia il bambino affamato, un mondo, addirittura, dove la politica era una cosa bella ed era una bella cosa fare politica. A raccontarlo adesso apparirà improbabile favola. Forse per questo è storia dimenticata, nascosta.
