Opinioni

Mafia e le stragi, un liceale di 30 anni fa ricorda: avere memoria, non dimenticare, è un esercizio quotidiano

 Mafia e le stragi. Ci vuole coraggio anche per ricordare. Lessi “I miei giorni a Palermo”, del magistrato Antonino Caponnetto e del giornalista Saverio Lodato, nel 1992.

Avevo diciott’anni e questo libro mi arrivò come un pugno in faccia. I favolosi anni 80 erano finiti. Presto, molto presto, sarebbe arrivato il conto da pagare per quel decennio vissuto senza freni. Noi, adolescenti di allora, non eravamo consapevoli delle implicazioni. Nessuno ci fece un fischio per avvisarci che la «grande sbornia» ci stava mangiando il futuro, ma tant’è, il 2000 era ad un passo e le macerie del Muro di Berlino, testimonianza di un mondo che non c’era più.

Una generazione mal destinata

La nostra sarebbe stata la prima generazione a non godere quanto quella precedente. Il vento era cambiato, la classe politica affrettava il passo negli affollati corridoi del Palazzo di Giustizia a Milano. Un nuovo equilibrio stava prendendo il posto del vecchio, un’altra pagina della storia, dalla Prima alla Seconda Repubblica. 

Fu un’estate terribile quella del 92.

23 maggio, l’attentato a Falcone.

19 luglio, Borsellino. 

Le stragi di Capaci e via D’Amelio ci svegliarono dall’innocente tepore della nostra adolescenza. Forse diventammo grandi proprio in quei giorni. Dei cari amici, allora studenti di un Liceo Scientifico, dopo Capaci scrissero sulla lavagna della loro classe una frase che significava un sentimento di dolore e nascente partecipazione. Pressappoco diceva così: “La mafia ci fa saltare per aria e qui ci insegnano l’integrali”. 

C’era un profondo senso di commozione. Leggevamo quotidiani ed ascoltavamo la televisione per capire. E poi c’erano i libri. “I miei giorni a Palermo” fu il primo che lessi. 

Antonino Caponnetto entra in magistratura nel 1954. Dall’83 al 88 dirige l’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Guida il “Pool antimafia” formato da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Va in pensione nel 1990. Nell’anno delle stragi ha 72 anni. Per lui Falcone e Borsellino erano come figli.

“È finito tutto” disse nelle ore del dolore. Ma non fu così. Dopo gli attentati cominciò ad andare nelle scuole ed in ogni angolo del Paese per raccontare la mafia alle nuove generazioni. Fortuna volle, che anche nella mia si organizzò uno di questi incontri. 

Ricordo parlava con tono pacato. Nell’aula magna c’era silenzio. Tacevano anche i compagni più vivaci. La tensione delle storie che raccontava urtava con la gentilezza del suo volto. Non ci volle molto a capire che Antonino Caponnetto era un grand’uomo, uno di quelli che aveva dedicato la vita alla lotta contro la mafia.

Sentivamo nella sua voce un’emozione che in pochi minuti divenne anche la nostra. Fu come essere con lui nei giorni del Maxiprocesso alla mafia, nei momenti drammatici del suo ritorno a Palermo per i funerali di Falcone e Borsellino. 

L’impatto del ’92

Non è un’esagerazione dire che i fatti del 92 favorirono in molti di noi una sensibilità che non ci avrebbe più abbandonato, “una vera Resistenza” come l’ha definita recentemente il già procuratore capo di Torino e Palermo Giancarlo Caselli dalle pagine del Corriere della Sera. 

Ognuno la fece a modo suo. Taluni decisero di iscriversi alla Facoltà di Legge, altri si attivarono nell’associazionismo legalitario, altri ancora «resistettero» leggendo, studiando di mafia, mentre qualcuno invece lo fece semplicemente rimanendo con la memoria in modalità “ON”, per non dimenticare.

Eravamo compressi tra due enormi eventi che avrebbero inevitabilmente segnato la storia del paese, perché mentre a Palermo la mafia uccideva Falcone e Borsellino, cioè mentre la guerra allo Stato si manifestava in tutta la sua evidenza, a Milano, un altro pool di magistrati, il 17 febbraio aveva arrestato Mario Chiesa dando inizio all’inchiesta giudiziaria di Mani Pulite. 

Cosa stava succedendo?

Non era facile da capire, almeno per noi giovani uomini ancora acerbi. Certo, molte delle dinamiche erano chiare, talune anche scontate. Tuttavia, l’intreccio profondo di ragioni che portava alle radici dei problemi ci appariva ignoto. Oggi sappiamo che quell’intreccio non è stato ancora del tutto dipanato. 

Isaia Sales, professore di Storia delle Mafie presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in uno dei suoi libri, “Storia dell’Italia mafiosa”, sostiene che “la prima legittimazione le mafie l’hanno avuta con la nascita dello Stato Unitario. Le mafie hanno avuto bisogno che si formasse lo Stato nazionale per assumere un ruolo centrale che prima non erano riuscite a svolgere completamente sotto i Borbone”.

Ma c’è anche altro.

Per Sales, successivamente all’Unità, le mafie si consolidarono sfruttando l’estensione del voto ad una platea più ampia di elettori. “Se nel 1861 avevano diritto al voto seicentomila persone su 20 milioni di abitanti, già nel 1882 potevano votare due milioni e mezzo di cittadini. Il condizionamento del voto è una delle caratteristiche delle mafie, condizionamento che cambiò nel corso del tempo in intensità e qualità”.

Dunque: se la mafia ha trovato nell’Unità una legittimazione, e nella crescente democrazia – qui intesa come diritto al voto – il suo consolidamento, allora si può affermare che il problema non ha una dimensione locale ma bensì un’appartenenza nazionale.

Chiarisce Sales nel suo libro

“Quando i fenomeni criminali come le mafie durano tanto a lungo, quando rompono facilmente l’argine entro cui si pensava fossero storicamente e socialmente confinati, ciò vuol dire che essi non sono più riconducibili solo a storia criminale, ma fanno parte a pieno titolo della storia italiana”.

Questa chiave di lettura fu tra le prime cose che intuimmo di quel 1992. Il fenomeno mafia aveva a che fare con un modello culturale che andava combattuto in tutto il paese. «La nostra primavera» doveva quindi avere una direzione chiara, proporre riferimenti alternativi e contrapposti a quelli mafiosi. 

Sono passati 30 anni. Siamo in uno dei 57 giorni che separano Capaci da Via D’Amelio. 

Paolo Borsellino li visse sapendo di avere poco tempo. L’esplosivo per lui arrivò a Palermo il 13 luglio.

Ogni generazione rende testimonianza di qualcosa. Noi che avevamo l’età di Greta Thunberg, lo facemmo allora e lo facciamo oggi per la lotta alla mafia, o, parafrasando il titolo di un libro di Giuseppe Ayala, per “la guerra dei giusti”. 

Si, sentivamo di essere dalla parte giusta della Storia, e forse, quella guerra, la stiamo ancora combattendo.

Preoccupano le recenti dichiarazioni di Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro. “Il Governo Draghi non pervenuto sul tema della lotta alla criminalità” ha detto. 

“Io sono ottimista,” – scrisse Paolo Borsellino in una lettera nell’ultima giornata della sua vita – “poichè vedo che verso Cosa Nostra, i giovani, siciliani e non, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti, avranno più forza di reagire di quanto io, e la mia generazione, ne abbiamo avuta”.

Nella strage di Capaci persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la scorta: Vito Schifani, Rocco Dicilio, Antonio Montinaro.

In via D’Amelio morirono Paolo Borsellino e la scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Fabio Li Muli. 

Avere memoria, non dimenticare, è un esercizio quotidiano.  

Ci vuole coraggio anche per ricordare. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Published by
Marco Benedetto