I dialetti sono una cosa bellissima. Sono tra le basi della nostra identità. Quando sento dei giovani che parlano un dialetto quasi mi commuovo, è il segno che non è ancora tutto finito nel grande calderone omogeneizzante della tv e del grande fratello. Adoro i dialetti e detesto gli accenti, a cominciare dal mio.
La Tv ha avuto il grande merito di fare dell’italiano la lingua non solo delle classi colte ma di tutti gli italiani. Al tempo stesso, ai suoi albori in Italia, la Tv di Stato ha anche contribuito alla diffusione della conoscenza dei dialetti con i grandi attori d’anteguerra, da Durante (romano) a Baseggio (veneziano), da Musco (siciliano) a Govi (genovese) ai De Filippo (napoletano) e Macario (torinese)questo portava a scoprire la lingua delle altre regioni e se non ad amarla, a rispettarla. Poi siamo stati travolti dal romanaccio che ormai tutto domina.
L’unità d’Italia è stata fatta da gente che parlava in dialetto: Garibaldi in genovese, Cavour e Vittorio Emanuele in torinese, Crispi in siciliano e si davano del voi (tranne che con il re, cui si dava del lei), come si fa ancora tra la gente all’antica anche al nord, non fosse che la fascistizzazione del voi imposta da Mussolini ne facesse una parolaccia dopo la guerra e prima che la meridionalizzazione dell’Italia rendesse il tu universale.
I miei genitori non volevano che imparassi il dialetto della mia città, Genova: mia madre forse lo vedeva come un segno di volgarità plebea, anche se, in quei tempi, i grandi capitani d’industria, quelli che hanno fatto l’Italia del miracolo, da Agnelli (il fondatore) a Valletta ai Piaggio parlavano tutti dialetto. L’avvocato Agnelli (il nipote) ogni tanto ci provava a parlare torinese; sempre lo faceva quando rievocava frasi di suo nonno.
In quel periodo di grandi mescolamenti etnici parlare dialetto univa i più ricchi e i più poveri di una città e dava loro un senso di identità di fronte alla marea montante dell’immigrazione dal Sud: ho trovato dei dischi di un comico genovese addirittura di prima della guerra, dove già vibrava il contrasto fra indigeni e immigrati alla base della piramide sociale. L’ex sindaco di Torino, Diego Novelli, negli anni settanta rimpiangeva quando a Borgo San Paolo, uno dei nidi della cultura e della classe operaia torinese d’anteguerra, gli operai parlavano tutti piemontese.
Mia madre non voleva ma l’ho imparato lo stesso, perché il dialetto lo respiravi in strada, al mercato, ti entrava nella pelle. L’ho studiato, so quasi a memoria la versione dell’Eneide di Nicolò Bacigalupo che decisamente migliora l’originale di quel minculpop di Virgilio. Ho scritto in dialetto, con tutti i complicatissimi problemi della grafia genovese: con due commedie per la Rai regionale mi ci sono comprato la prima automobile.
Di quegli anni cinquanta e sessanta sono i cantautori che hanno segnato la rivoluzione della canzone italiana: Paoli, De André, Lauzi andavano nei carrugi, i vicoli dietro il porto, a imparare le canzoni del popolo che hanno riversato al grande pubblico o hanno trasferito in produzioni originali, sempre in dialetto.
Per tutte queste ragioni posso dire con convinzione che l’idea di imporre a scuola lo studio del dialetto è un’idea sbagliata, molto sbagliata. Non ci sono i testi, non ci sono gli autori, non ci sono grammatiche né dizionari adeguati. Si può anche essere d’accordo se l’obiettivo è montare un carrozzone di dimensioni ciclopiche per creare il sempre atteso milione di posti di lavoro promesso da Berlusconi una decina d’anni fa, che ora magari Bossi vuole finalmente attuare. Sarebbe senza dubbio una miniera d’oro per il clientelismo e il sottogoverno. Strano che la regione Sicilia non ci abbia mai pensato.
Ma sarebbe una grande delusione da parte della Lega, un partito che, oltre il folklore, inevitabile come le liturgie per l’appello alle masse, e le esagerazioni di qualche estremista, è uno dei più seri e coerenti, dotato di una classe dirigente di prim’ordine, con i piedi per terra.
Va bene avere il problema di tormentare il povero Berlusconi con una trovata al giorno. Va bene arrivare a inventarsi che l’etnia dominante nell’Italia del Nord è quella celtica (dicono che vogliono farlo credere persino ai friulani). Fermiamoci lì. Che non sia una cosa seria lo dice il fatto che la Corte costituzionale ha già bocciato, anche se per problemi di forma non di sostanza, una legge impugnata dal Governo Prodi, portata avanti dalla giunta di sinistra di Riccardo Illy e voluta innanzi tutto da Rifondazione comunista. Per un politico di mestiere, cose come questa valgono qualche voto, non tanti, ma sono come una corsa ciclistica o una processione. Ma non è una cosa seria.
I giovani in Italia oggi hanno già problemi con la lingua italiana. Sono diffusamente ignoranti. Dà i brividi quel che ha scritto l’Invalsi, struttura del ministero della pubblica istruzione: su quattro studenti di terza media, uno non capisce quello che legge.
I giovani di oggi hanno problemi di analisi logica e di congiuntivi, che non servono tanto al ben parlare, quanto alla struttura del pensiero, alla comprensione di quel che si legge, all’apprendimento delle altre lingue, fondamentale in un mondo fatto di scambi, di interazione.
Ai ragazzi veneti o friulani o di Trieste non gli devono insegnare il veneto o i friulano o il triestino. Gli devono insegnare innanzi tutto il tedesco, perché quello è stato nei secoli e sarà nel futuro il loro retroterra: e poi magari il russo o il cinese, dando per scontato che l’inglese dovrebbero saperlo proprio tutti: non per chiedere l’indirizzo di un ristorante, ma per leggerlo e parlarlo correntemente.
Una lingua nazionale, capita e parlata a dovere, serve soprattutto alla formazione di una classe dirigente. Con il dialetto mi ci commuovo, ci faccio delle serate di amarcord. Ma non ci si forma una classe dirigente, solo una classe subalterna, ai tedeschi, ai francesi oggi, domani anche a quei romeni e i polacchi verso i quali i fautori dello studio del dialetto si sentono tanto superiori.
Con queste cose non ci si può permettere di scherzare.