I grandi giravano scortatissimi. Una volta l’avvocato Agnelli mi disse, con quel senso dell’umorismo che gli faceva sdrammatizzare anche la tragedia: fastidiosi questi terroristi, ci fanno andare in giro come fossimo dei criminali. Una volta restò impressionato, quasi compiaciuto, quando un grande capo del’anti terrorismo francese gli disse che per proteggerlo “non sarebbe bastato un reggimento di cavalleria”.
In quegli anni un po’ tutti quelli che avevano dei soldi diventavano soggetto da rapimento. In due libretti (Berlinguer e il Professore, I soldi in paradiso, usciti nel 1975, un autore Anonimo che era il giornalista Gianfranco Piazzesi) descriveva il paradossale futuro prossimo dell’Italia, avviata verso il “compromesso storico” tra democristiani e comunisti, mentre i ricchi sarebbero andati in giro scortati da gourka e i più accorti avrebbero mandato capitali e figli in Svizzera.
La Fiat era il bersaglio più cospicuo, ma non il solo. Piacevano anche altre grandi aziende, specie le filiali di multinazionali straniere, cosa che spiega, in parte, il poco interesse ad investire in Italia. Non è solo questo: bisogna aggiungere anche le assurde intricatezze borboniche di leggi e regolamenti, la morsa e il morso di politici e cricche di funzionari, le strade che non ci sono, le ferrovie della grande guerra.
Alla fine degli anni ‘70 la Fiat era in ginocchio, in un mercato sempre più aggressivo e battuto dal vento della concorrenza. Qualche buontempone aveva deciso che l’auto era finita, era inutile pensare a nuovi modelli; e poi, anche a volerlo, non c’erano i soldi, perché la Fiat era stata stremata finanziariamente da un lungo periodo di blocco dei prezzi imposto dal Governo, mentre l’inflazione correva oltre il 20%. I capi della Dc avevano punito Agnelli, in quanto cognato di Carlo Caracciolo e per questo considerato lui il vero editore dell’Espresso, ogni numero del quale era un colpo al fegato per il regime dell’epoca.
Lo slogan “La volontà di continuare”, inventato da Maurizio Costanzo, era un urlo disperato. La Fiat era sola. I politici avevano già tante angosce: crisi economica, terrorismo, guerra fredda, povertà e arretratezza nel Nord est e nel Meridione, ci mancava solo la Fiat. E poi che la Fiat fosse in crisi nessuno ci voleva proprio credere.
Cesare Romiti ha raccontato di recente della reazione di Francesco Cossiga, presidente del Consiglio, quando la Fiat gli comunicò, nel settembre 1980, quel piano di licenziamenti che poi portò all’occupazione di Mirafiori e alla marcia dei 40 mila: “La notizia lo spaventò letteralmente. Ci fece telefonare prima dal prefetto di Torino. Poi arrivarono le chiamate da Roma del ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Spiegò che Cossiga era impaurito dalle possibili conseguenze. Mi parlò di un’opinione pubblica allarmata, della possibile saldatura tra Brigate rosse e studenti in lotta, addirittura pronunciò l’espressione guerra civile”.
Romiti è stato tra i protagonisti di quelle giornate d’autunno di trent’anni fa in cui si recitava il secondo atto e ultimo dello scontro che doveva portare alla ripresa del controllo della fabbrica da parte della Fiat. Romiti ebbe una parte importante in questa seconda fase, perché era rimasto solo al comando dopo l’estromissione di Umberto Agnelli, e giocò il ruolo con lungimiranza e equilibrio rispetto ai falchi della Fiat Auto. Vinsero i falchi, portando a un cambiamento totale non solo della Fiat ma dell’Italia e alla fine Romiti restò solo sul carro del trionfo.
