Molto del decennio precedente quel mattino torinese del settembre 1979 è chiuso tra due film. La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri, del 1971, raccontò il duro processo di adattamento di un pezzo d’Italia alla vita industriale, e diede una base culturale al rifiuto dei valori del lavoro manuale. Prova d’orchestra, di Federico Fellini, del 1978, diede voce allo smarrimento crescente di una parte crescente di italiani di fronte alla contestazione esasperata e alla violenza.
Alla vecchia cultura operaia che affiancava al duro rapporto, conflittuale e di classe, con il padrone l’amore per il proprio mestiere, il rispetto per le macchine, l’orgoglio per il lavoro ben fatto, era subentrato il rapporto esistenzialmente conflittuale con il lavoro in quanto tale e con la disciplina come condizione preliminare per qualunque società organizzata.
I cortei interni, che nella mitologia sindacale sono diventati sublimi momenti di lotta, erano in realtà momenti di violenza, il cui momento culminante era la caccia al capo, destinatario di spintoni e pestaggi.
Fu Gianpaolo Pansa a portare, al grande pubblico della sinistra, i racconti quotidiani della violenza in fabbrica. Fu un’intervista a un capo di officina, apparsa su Repubblica con tutta la credibilità che il giornale le diede, che fece scalpore.
Fu Giorgio Amendola, leader comunista storico, a tagliare il cordone ideologico con la violenza in fabbrica: c’era “un rapporto diretto […con] il terrore. Scrisse su Rinascita, in un articolo che fu una svolta: “Le intimidazioni violente, le minacce, il dileggio, le macabre manifestazioni con le casse da morto e i capireparto trascinati a calci in prima linea” ricordavano troppo da vicino le “violenze fasciste per non suscitare sdegno e disgusto”.
Allora molti cominciarono a capire che non ci sono mai confini tra la violenza buona e quella cattiva. Una volta che si comincia, non c’è più soluzione di continuità. Non è permesso essere ambigui ed è molto pericoloso, anche nel clima di oggi, far finta di niente.
Quel mattino, a Mirafiori, nessuno sapeva come sarebbe andata a finire, i più erano pessimisti, Umberto Agnelli era consapevole che stava portando la Fiat verso la partita decisiva.
La prima mossa i fratelli Agnelli l’avevano fatta alcuni mesi prima, mettendo Vittorio Ghidella a capo della divisione.
