ROMA – Silvio Berlusconi si è dimesso e molti hanno esultato, molti invece hanno seguito sconcertati la vicenda, divisi dalla linea di convinzione politica e di voto. La vicenda certo non può esaltare, perché nelle dimissioni di un capo del governo della nostra Italia determinate da fattori esterni alla politica italiana, quali libere elezioni, anzi, all’Italia, non vedo cosa ci sia da gioire.
I problemi che hanno portato alla sua caduta, i problemi politici, non quelli moralistici e estetici, sono ancora tutti lì e il suo successore, Mario Monti, non ha poteri magici né dittatoriali. Rispetto a Berlusconi e a qualsiasi altro politico ha un vantaggio, che non deve rispondere a un elettorato se ne calpesta interessi particolari. Dovrà però passare per il voto di un parlamento che, per quanto emasculato da anni di riforme striscianti, agirà sempre e comunque secondo calcoli elettorali.
La vicenda di Berlusconi, con il crescendo finale e il suo epilogo, è illuminante.
Berlusconi è stato vittima di se stesso, un po’ del suo mito di superuomo, molto di più a causa della contraddizione politica grazie alla quale è rimasto al centro della scena per quasi vent’anni ma che alla fine lo ha trascinato a fondo.
La stessa dimensione dei suoi successi, come imprenditore e come politico, lo ha inebriato, accecato, facendogli credere di appartenere a una super categoria di semidei, prossimi all’immortalità, cui tutto è lecito e permesso. Viviamo invece in un sistema internazionale, dove le buone maniere, le convenienze, le convenzioni, insomma la forma contano quanto la sostanza.
Invece Berlusconi ha ridotto tutto a una comica figura ridicola, tra capelli dipinti sul cranio e bunga bunga, con un disastroso effetto sulla già precaria e traballante immagine che ci accompagna nel mondo.
Ma questo non basta. Una causa del fallimento di Berlusconi è stata la motivazione all’origine della sua entrata in politica, che non era, appunto, la politica, ma la difesa delle sue tre reti tv, ossessiva e assoluta (ma che Mediolanum, ma che Mondadori, solo le sue tv).
Però la causa principale del fallimento politico di Berlusconi è, appunto, politica. Berlusconi non ha occupato Palazzo Chigi in tutti questi anni in base a un mandato elettorale personale e univoco. Questo se lo diceva da solo, per convincersi.
Lo ha fatto invece tenendo in piedi una coalizione che aveva in sé la contraddizione che alla fine l’ha fatta implodere: la tutela degli interessi dei ceti medi, incorporata in Forza Italia; la tutela dei ceti deboli del nord, curata dalla Lega; la tutela dei ceti deboli del centro sud, curata dall’ex Msi, nonché la tutela degli interessi televisivi prima e poi anche giudiziari dello stesso Berlusconi. L’amalgama della salsa era una promessa liberale e modernista, quasi rivoluzionaria, la mitizzata quanto impossibile “rivoluzione liberale”, che però era solo fumo, perché anche in politica le incompatibilità ideologiche non sono fumisterie, ma sono il riflesso di concreti interessi di classe (quegli interessi di classe che nemmeno l’Unione Sovietica è riuscita a sradicare) in contrasto fra loro.
Berlusconi, partendo dalla spregiudicata intuizione di fare uscire gli ex fascisti dalle fogne e di trasformarli in forza di governo, ha tenuto assieme tutto questo per tanti anni, con promesse, bugie, rinvii, politica da banco e politica da sottobanco. Ma la recessione economica degli ultimi tre anni ha fatto esplodere “la contraddizion che nol consente”, perché nessuna delle quattro anime della sua coalizione poteva contare su consensi e seggi in Parlamento tali da imporsi.
Questo ha portato al fallimento finale della maggioranza, alla sua scissione, come ha portato al fallimento di quasi tutto il programma politico di Berlusconi, tranne quei pochi punti che hanno portato a un aumento della spesa pubblica, dalla salute ai minimi delle pensioni. Rivisto in prospettiva, Berlusconi sembra quei criceti che passano il tempo nella loro gabbietta a arrampicarsi su una ruota e si trovano sempre allo stesso punto. Non c’è male, dal suo personale punto di vista, perché gli ha permesso di evitare qualsiasi contatto con le patrie galere, ma una amara delusione per chi abbia a cuore gli interessi se non dell’Italia almeno di una sua parte.
Se facciamo un elenco dei suoi sogni e dei suoi proclami, il risultato è una sconfortante litania di “fallito”, leggi ad personam incluse, a cominciare dal suo sogno di una repubblica presidenziale, che si è trasformato in incubo. La repubblica presidenziale l’ha fatta, licenziandolo in tronco, il presidente attuale, Giorgio Napolitano cui Berlusconi ha consegnato le chiavi del sistema grazie ai suoi comportamenti indecenti, a casa come sulla scena pubblica internazionale.
Poi la lista continua. Giustizia: dallo spezzeremo le reni ai giudici si è arrivati alla constatazione di Angelino Alfano che nessuno più mai potrà toccarli.
Repressione delle fughe di verbali e intercettazioni: per puro culto della propria personalità (o perché mirava ad altri inconfessabili obiettivi), ha scelto la strada dello scontro, perdendolo, invece di fare approvare dal Senato una legge che alla Camera tutti, ma proprio tutti i partiti, sinistra inclusa, avevano approvato con entusiasmo; per non dire che una legge c’è già e basterebbe solo farla applicare.
Riforma degli Ordini: peggio del duo Prodi – Bersani, che fallirono anche con i taxisti.
Riforma elettorale: il maggioritario o il sistema tedesco che tagliano fuori dal Parlamento i partiti più piccoli sono rimasti tema di convegno e editoriali più o meno fuori bersaglio. Su questo terreno, Berlusconi ha abbindolato ai tempi della bicamerale Massimo D’Alema, unito a lui dal vizietto di voler eliminare i partiti contigui, nel caso Rifondazione, prima che gli avversari; Berlusconi ha ottenuto quel che voleva nell’interesse delle sue tv e ha poi fatto saltare il tavolo quando D’Alema non poteva concedere più di tanto contro la magistratura.
Lascio fuori dal conto il federalismo, perché attuarlo sul serio avrebbe fatto venire meno una delle condizioni per cui lui stava a Palazzo Chigi e quindi rientra nel capitolo bugie a un partner e strizzatine d’occhio all’altro.
Berlusconi ha provato a fare un passo avanti con la fusione per incorporazione di An nel Pdl, ma l’ha fatta fallire per le sue arroganza e insensibilità che hanno scatenato l’ira invidiosa rabbiosa e alla fine anche funesta di Gianfranco Fini.
Lavoro: fallimento totale.
Ridurre le tasse: ci lascia il tax rate più alto della storia.
La divergenza di visioni e di interessi fra le componenti di una coalizione di maggioranza, peraltro, è stata la stessa causa del fallimento dei precedenti governi di sinistra guidati da Romano Prodi, anche se tra le sue varie componenti c’era una base ideologica più omogenea di quanto ci sia stata o ci sia nella maggioranza o ex maggioranza di sedicente destra.
Ora che Berlusconi non c’è più, ci chiediamo credo, in milioni, cosa accadrà?
La scaletta non dovrebbe discostarsi troppo da quella del 92 – 94, in cui fummo guidati dai governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi: un po’ di aumento della pressione fiscale e misure depressive varie, un po’ di cambiamenti delle regole del mercato del lavoro, un po’ di privatizzazioni, ovviamente, date le condizioni dei mercati finanziari, a prezzi di saldo.
Sono le cose che forze sovrannazionali ci vogliono imporre di fare, che Berlusconi ha cercato di non fare e che nessun partito politico che voglia continuare a esistere vorrebbe fare. Visto anche il risultato del precedente passaggio della sinistra alla guida del risanamento, appare saggia la decisione del Pd di non raccogliere il bastone di comando che Berlusconi ha dovuto lasciar cadere. Quali che siano le scelte del nuovo governo, saranno di quelle che fanno perdere voti, o da una parte o dall’altra.
Il precedente esperimento fece fare buoni affari a chi aveva i soldi per partecipare alla festa delle privatizzazioni, portò a sensibili miglioramenti per l’Italia. Fu accompagnato anche da un drastico calo dei tassi di interesse a livello mondiale, che ebbe salutari effetti sui nostri mutui e i nostri debiti in banca, oltre che sul debito dello Stato. Ma tutto questo non bastò e dopo quattro anni da comitato di salute pubblica ci trovammo Berlusconi a capo del governo.
La nomina di Mario Monti a primo ministro, al di là delle polemiche sui suoi legami con Goldman Sachs, la cupola della finanza globale, e anche le perplessità che suscitano alcune indicazioni sui possibili ministri (meglio il rettore della Cattolica della Gelmini alla Pubblica istruzione?) appare nella migliore tradizione italiana. Incapaci di scelte politiche condivise, gli italiani del passato si rivolsero a guide esterne, i podestà, nei secoli sostituiti da sovrani stranieri
La terapia l’ha già scritta Mario Draghi (anche lui ex di Goldman Sachs): riduzione della spesa pubblica, maggiore facilità dei licenziamenti e conseguente aumento del lavoro precario a scapito di quello forse eccessivamente garantito, aumento dell’età pensionabile, riduzione dei costi (stipendi inclusi) e snellimento (con mobilità dei dipendenti) della pubblica amministrazione, nonché privatizzazioni, liberalizzazioni, che sono poi uno dei terreni principali di scontro fra Berlusconi e i suoi avversari internazionali.
Ma tra prescrivere una cura e far guarire il malato, ammesso che l’Italia sia poi davvero così malata, c’è di mezzo la somministrazione delle medicine. È tutto da vedere cosa farà Monti, a sua volta stretto tra le indicazioni della Bce e un parlamento, espressione di partiti, che prima o poi dovranno presentarsi ai loro elettori.
Il nodo è tutto intorno a quella lettera inviata in agosto dalla Bce a Berlusconi e alla sua reinterpretazione da parte di Berlusconi, fatta in modo tale da potere aggirare i temi più controversi.
Uno dei punti critici sarà quello di fare cassa e qui ci sono due modi, uno, a breve termine indolore, quello di vendere i “gioielli” dello Stato, aziende e immobili; l’altro, quello di spremere soldi dai cittadini, assai impopolare in un paese dove la pressione fiscale è tra le più alte del mondo, si chiami il nuovo balzello patrimoniale o super Ici.
Un altro punto dolente sarà la rescrittura delle regole del lavoro, sia dei dipendenti pubblici, da un secolo garantiti da privilegi finora intoccabili, sia di quelli privati. Ci si sono fatti male tutti, Berlusconi incluso.
Per dare un posto di lavoro ai tanti giovani che lo aspettano, alle loro condizioni (il lavoro invece c’è, tanto che abbiamo assorbito cinque milioni di stranieri), illusi anche dalle irresponsabili parole di politici e giornali, in questi tempi di crisi, in cui nuovi posti di lavoro non possono nascere e risolvere il problema dell’occupazione giovanile non può essere che un gioco dei quattro cantoni, la strada è solo quella di rendere licenziabile (precarizzare si dice?) chi quel posto lo ha già.
Ma mentre tutti parlano dei giovani, nessuno sembra pensare a quanti, sulla mezza età, verrebbero espulsi dal ciclo produttivo, per scarso rendimento come per semplici ragioni di risparmi aziendali, con poche possibilità di riciclo. Tutti presi dalla mitologia giovanilistica, ai poveri “vecchi” non pensa proprio nessuno, in termini di ammortizzatori sociali, prepensionamenti. Anche perché la coperta è corta: se nel sistema non ci sono i soldi per nuovi posti di lavoro, difficilmente sarebbero disponibili risorse per appesantire il sistema pensionistico, che a sua volta si vuole invece alleggerire ritardando l’andata in pensione finoa 70 anni.
Finora Berlusconi, stretto fra i veti della sua maggioranza e anche dell’opposizione, si è barcamenato e alla fine sembrava avere individuato una strada che è da lui. Prepensionare i dipendenti pubblici, in apparenza per andare nel senso voluto dalla Bce, ma anche per costituire le premesse per un po’ di assunzioni di massa.
Quello che invece sembra la fine della storia è che i nuovi posti verranno chissà quando, dopo anni e anni di crescita dell’economia, se mai ci saranno visti gli scenari dell’economia globale. Nel frattempo il governo, di qualsiasi colore, dovrà gestire una situazione tutt’altro che piacevole di conflitto e scontro sociale.
Questo l’hanno ben capito i politici e per questo alla fine hanno accettato Monti, l’unico che, lui ci piaccia o non ci piaccia, appare in grado di garantire quelle forze internazionali che un po’ di vendite allo scoperto possono mettere in ginocchio qualsiasi paese.
Sarà disponibile Monti a sobbarcarsi l’impopolarità dei provvedimenti che la Bce ha messo nero su bianco?