Piero Fassino è stato il migliore segretario del primo partito della sinistra italiana dai tempi di Enrico Berlinguer. Sua è stata la più importante e forse l’unica vittoria elettorale di quel partito, nelle sue varie evoluzioni, quella nelle regionali in Friuli Venezia Giulia e non fu certo un’impresa facile. Fassino vinse perché evitò di radicalizzare la lotta, portò un candidato, Riccardo Illy, che non si può certo definire un Vendola, soprattutto, come mi raccontò lui stesso dopo il risultato, diede la parola d’ordine di non parlare di Berlusconi, trasformando la campagna elettorale da uno scontro su una persona, che divide a metà l’odio e l’amore degli italiani, a un confronto sui temi e sulla potenziale migliore capacità di amministrare la regione.
Purtroppo per lui, e anche per la sinistra, Fassino non ha molto glamour, causa l’eccessiva statura, l’aspetto ossuto, quegli occhiali sempre sul naso che lo fanno assomigliare a un lupo glabro di cappuccetto rosso. Non conosce la vuota retorica di parole senza semantica di Walter Veltroni, la sicumera arrogante di Massimo D’Alema priva del buon senso semi proletario di D’Artagnan, gli slogan a effetto e senza conseguenze di Pier Luigi Bersani. Forse per questo lo hanno brutalmente mandato a casa, abbandonato anche da amici che un tempo lo adoravano, prima di bere l’acqua marcia alle fontane di Roma.
Ed è un peccato, perché Fassino è uno che studia le pratiche, non parla a vanvera, perde le staffe con i giornali solo quando alludono alle sue intercettazioni, ma nessuno è perfetto.
Credo anche che un po’ della saggezza che in età recente Fassino ha sfoggiato sia frutto della amara esperienza fatta trent’anni fa, quando era giovanissimo segretario del Pci torinese, ai tempi della vertenza Fiat, finita in 35 giorni di blocco della fabbrica simbolo di Mirafiori e nella sfilata, nel centro di Torino, di decine di migliaia di dirigenti, quadri aziendali e cittadini comuni esasperati da anni di prepotenze e violenze sindacali crescenti.
A un certo punto dello sciopero, il 26 settembre, Berlinguer arrivò a Torino, parlò ai lavoratori e alla città, diede ai lavoratori in sciopero l’appoggio morale del partito. Parlò al mattino davanti ai cancelli di Mirafiori. Non ricordo cosa disse perché non ebbi il coraggio di andare fin là: c’era un certo clima di paura, pochi giornalisti sfidavano le foto segnaletiche che qualcuno della Flm faceva quando un inviato si addentrava nel tram trasformato in sala stampa messo a disposizione del sindacato dall’azienda comunale; anche un inviato del Manifesto preferì venire a lavorare nella sala stampa che avevamo allestito al secondo piano di Corso Marconi e in cui nessuno dell’ufficio stampa Fiat poteva entrare, tranne le segretarie che portavano ai giornalisti le fotocopie delle agenzie di stampa: non volevo che qualcuno si sentisse oppresso dall’ingerenza di stile vecchia Fiat che avevo tanto patito da giovane cronista dell’Ansa di Genova. Ero convinto, allora come oggi, che la forza delle cose e della verità sia superiore a ogni mistificazione.
Questa sfilza di ricordi anche un po’ personali può apparire un po’ noiosa e me ne asterrei se non fosse che vuole essere una affettuosa replica a una persona che stimo e che ha un certo ruolo nel paese. Non avevo ancora letto l’intervista di Fassino alla Stampa che è all’origine di questa rievocazione, quando mi ha chiamato di buon’ora un mio maestro di mestiere, Giampaolo Pansa, chiedendomi se ricordavo quei fatti. Altrimenti, avendolo già fatto di recente, non importunerei nessuno.
Ricordo però bene quel che Berlinguer disse la sera, in piazza San Carlo, al secondo comizio che tenne, davanti alla cittadinanza assortita. C’era tanta gente e c’ero anch’io, con alcuni amici, dal lato opposto del palco, davanti al caffé San Carlo, un po’ nascosto da una delle grandi colonne che reggono i portici della piazza. C’erano altoparlanti dappertutto e si sentiva benissimo.
Berlinguer disse più o meno queste parole: “Se voi occuperete [Mirafiori o la Fiat non ricordo] noi saremo con voi”. Ricordo bene che il mattino dopo ne parlai con i colleghi dell’Ufficio stampa, Alberto Nicolello e Simone Migliarino e altri, Fattori e Sodano, e convenimmo che era stato un grande errore per il Pci appiattirsi, come si dice oggi, sulle posizioni della federazione dei metalmeccanici. Certo che facemmo anche qualche telefonata in giro: è il lavoro di un ufficio stampa. Ma non si può certo parlare di poderosa macchina di propaganda. Meno che mai c’entrava l’Ansa, meno ancora il discorso di Mirafiori del mattino. Potrà essere stato un lavoro sciatto del redattore dell’Ansa di Torino che, citando Berlinguer, avrà omesso delle frasi, ma non credo.
Chi ha vissuto nei giornali in quegli anni ricorda che sull’informazione c’era un controllo ferreo, quasi da soviet e non da parte aziendale. L’idea che un poveretto dell’Ufficio stampa della Fiat desse ordine di modificare una notizia esagera la mia onnipotenza ma è fuori della realtà di quei tempi. Meglio avesse telefonato l’addetto stampa del demonio. Non solo all’Ansa, ma anche alla Stampa, giornale della Fiat, l’azienda madre era vista come il paradigma del male. La cronaca di Torino della Stampa era tutta anti Fiat. Il compianto Sergio Devecchi, cronista sindacale della Stampa, che aveva fatto comitato di redazione in anni in cui c’era la cultura del reparto zero, ma subiva l’anatema per essere socialdemocratico, parlava con me piegato sotto la sua scrivania nello stanzone della cronaca, per non farsi sentire dagli altri. Ricordo ancora la fatica, con una di quelle telefonate da agenti segreti, per fare uscire l’annuncio dell’incontro al Teatro Nuovo, al Valentino, da cui scaturì la marcia dei 40mila: una notizia a una colonna, seminascosta.
Questa della poderosa macchina da guerra, tutt’altro che gioiosa ma vincente, della propaganda Fiat è una idea molto cara a Fassino: l’ha sostenuta nella sua tesi di laurea qualche anno fa, in una intervista al magazine del Corriere della sera, a Porta a Porta con Bruno Vespa la sera che morì l’Avvocato Agnelli. Mi ha fatto guadagnare punti in famiglia, mi fa un po’ montare la testa, perché una citazione in Tv è una medaglia, ma semplicemente non è vero e Fassino non ricorda bene.
Penso che lui voglia rimuovere una colpa della quale lo ritengo invece del tutto innocente, quella di non avere saputo trattenere Berlinguer dall’incauta affermazione. Ora c’è da dire che quando Berlinguer fece i suoi comizi, la partita sembrava tutta nelle mani del sindacato: siamo ancora a metà del calvario e giova ricordare che fino all’ultimo il sindacato contava di vincere, essendo fortemente sbilanciato a suo favore anche il ministro del Lavoro Franco Foschi. La marcia dei 40 mila fu un uragano senza preavviso.
C’entra poco, per quel che accadde poi al Pci e al sindacato, una frase dell’Ansa. L’errore fu strategico non tanto nella conduzione della vertenza quanto nel non capire quel che stava cambiando in Italia e nel mondo. Ma non è una novità.
Poi c’è un’altra cosa da tenere presente: che i capi godono di un diritto di extraterritorialità che li autorizza a dire quel che ritengono più giusto, anche contro l’avviso prevalente di chi gli sta vicino: valeva per gli Agnelli (vale per tutti il ricordo di Cesare Annibaldi di Umberto Agnelli che non volle mutare una riga di un’intervista che gli costò la poltrona), valeva per Romiti, valeva anche per Berlinguer, come vale per Berlusconi: se Paolo Bonaiuti dovesse flagellarsi ad ogni incauta affermazione del suo datore di lavoro, sarebbe ridotto a brandelli di carne sanguinante.
Di una cosa sono certo, del mio ricordo. Come mio padre con le sofferenze in trincea nella Grande guerra, alla mia età oggi ricordo meglio i dettagli vecchi di decenni che non il menu di ieri sera.
Ero lì, in piazza, Berlinguer era illuminato dai fari, c’era tanta gente ma dove mi trovavo io la folla non era densissima. C’era un pezzo di città, non solo attivisti e lavoratori, ma gente comune, borghesi.
Per precauzione, stavo un po’ defilato, anche se pochi mi potevano riconoscere e la mia giovane età mi rendeva improbabile come capo dell’Ufficio stampa della Fiat. Avevo 35 anni e solo la fiducia incosciente di Luca Montezemolo mi poteva proiettare in quell’ufficio d’angolo al secondo piano che era stato, come disse una volta la mitica signorina “tota” Maria Rubiolo con dispregio verso di me e mistica devozione verso Gino Pestelli, dell’uomo del “terra, mare, cielo” e soprattutto della defenestrazione da capo redattore della Stampa voluta da Mussolini dopo il titolo del 27 giugno 1924 : “Il voto senatoriale a Mussolini il pensiero del popolo a Matteotti”. Tempi lontani ma mai così vicini come oggi.