Penso che lui voglia rimuovere una colpa della quale lo ritengo invece del tutto innocente, quella di non avere saputo trattenere Berlinguer dall’incauta affermazione. Ora c’è da dire che quando Berlinguer fece i suoi comizi, la partita sembrava tutta nelle mani del sindacato: siamo ancora a metà del calvario e giova ricordare che fino all’ultimo il sindacato contava di vincere, essendo fortemente sbilanciato a suo favore anche il ministro del Lavoro Franco Foschi. La marcia dei 40 mila fu un uragano senza preavviso.
C’entra poco, per quel che accadde poi al Pci e al sindacato, una frase dell’Ansa. L’errore fu strategico non tanto nella conduzione della vertenza quanto nel non capire quel che stava cambiando in Italia e nel mondo. Ma non è una novità.
Poi c’è un’altra cosa da tenere presente: che i capi godono di un diritto di extraterritorialità che li autorizza a dire quel che ritengono più giusto, anche contro l’avviso prevalente di chi gli sta vicino: valeva per gli Agnelli (vale per tutti il ricordo di Cesare Annibaldi di Umberto Agnelli che non volle mutare una riga di un’intervista che gli costò la poltrona), valeva per Romiti, valeva anche per Berlinguer, come vale per Berlusconi: se Paolo Bonaiuti dovesse flagellarsi ad ogni incauta affermazione del suo datore di lavoro, sarebbe ridotto a brandelli di carne sanguinante.
Di una cosa sono certo, del mio ricordo. Come mio padre con le sofferenze in trincea nella Grande guerra, alla mia età oggi ricordo meglio i dettagli vecchi di decenni che non il menu di ieri sera.
Ero lì, in piazza, Berlinguer era illuminato dai fari, c’era tanta gente ma dove mi trovavo io la folla non era densissima. C’era un pezzo di città, non solo attivisti e lavoratori, ma gente comune, borghesi.
Per precauzione, stavo un po’ defilato, anche se pochi mi potevano riconoscere e la mia giovane età mi rendeva improbabile come capo dell’Ufficio stampa della Fiat. Avevo 35 anni e solo la fiducia incosciente di Luca Montezemolo mi poteva proiettare in quell’ufficio d’angolo al secondo piano che era stato, come disse una volta la mitica signorina “tota” Maria Rubiolo con dispregio verso di me e mistica devozione verso Gino Pestelli, dell’uomo del “terra, mare, cielo” e soprattutto della defenestrazione da capo redattore della Stampa voluta da Mussolini dopo il titolo del 27 giugno 1924 : “Il voto senatoriale a Mussolini il pensiero del popolo a Matteotti”. Tempi lontani ma mai così vicini come oggi.