A giudicare dal distacco olimpico con cui i governi europei hanno seguito il domino del Nord Africa, viene da pensare che non sia stata una cosa del tutto inattesa. Non si organizzano movimenti come quelli che hanno portato alla caduta di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto, hanno turbato i sonni dei capi algerini e stanno scalzando dal trono anche Gheddafi, per chiudere con Iraq, Yemen, Bahrain, senza un minimo di preparazione che non può sfuggire a polizie del tipo che tengono o tenevano in pugno quei paesi.
Sono movimenti che nemmeno possono passare inosservati ai servizi di sicurezza dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo: sembra un po’ esagerato dire che hanno fallito tutti assieme italiani, francesi e spagnoli, senza contare le grandi compagnie petrolifere e gli inglesi e gli americani.
Vero è che i regimi autoritari sono a volte sorde rispetto ai segnali che vengono dal campo, che spesso sottovalutano gli avversari con la forza della loro arroganza e del loro disprezzo verso tutti gli altri e così Metternich dovette fuggire a precipizio da Vienna in rivolta, De Gaulle abbandonare Parigi, i sovietici furono colti alla sprovvista dalla rivolte ungherese e polacca e dalla primavera di Praga: quasi dovunque al vertice c’era un vecchio, come si poteva certamente definire un uomo di oltre settant’anni, così come oggi si può dire vecchio a uno che viaggi sugli ottanta, tipo Mubarak. C’è un’età, peculiare per ciascuno di noi, oltre la quale la capacità di discernimento, di giudizio, di reazione è ingarbugliata dalla lentezza dei riflessi, dalla nebbia dei ricordi, dalla convinzione che tutto si ripeta senza essere capaci di distinguere gli elementi di novità e di originalità che sono insiti in ogni tornante della vita e della storia.
Però in Nord Africa c’è qualcosa che non convince. A parte la Libia, dove ancora non si capisce come evolverà e solo si può scommettere che gli entusiasmi libertari di oggi saranno seguiti da amare deludenti sorprese domani, negli altri paesi sembra quasi che la mezza rivoluzione, basata sulla occupazione della piazza che abbiamo visto in tv, quasi senza sangue, tutta emozioni e psicodramma, sia stata considerata da tutti come la migliore transizione possibile verso un nuovo regime che garantisse la classe dirigente locale e il nostro bisogno di stabilità più o meno laica.
Quando si leggono le cronache di queste rivolte o si guardano i filmati in tv, ci ci sorprende, come capita a me, a ragionare come se in quei paesi, vedi l’Egitto, vedi la Tunisia, esistessero solo il vecchio dittatore, circondato dai suoi miliziani, da una parte e dall’altra le migliaia di persone scese in piazza, ignorando i milioni rimasti a casa in attesa di vedere la faccia dei nuovi padroni e applaudirli, ignorando anche o forse milioni, certo centinaia di migliaia di una nuova classe dirigente che si è formata all’ombra dei rais e che aveva tutto l’interesse a una transizione diversa da quella programmata, secondo lo schema oligarchia si monarchia no, che si legge sul viso sorridente del nuovo primo ministro egiziano Ahmed Safiq mentre stringe la mano al collega inglese David Cameron. Invece che al Cairo potremmo essere a Roma, stesso sfondo, stesse facce delle scorte, solo che Safiq è un po’ più abbronzato di Silvio Berlusconi e porta una cravatta celeste sgargiante alla Fini, che Berlusconi, per il male che gli si può dire dietro, non indosserebbe mai.
Il fatto che Cameron si sia precipitato al Cairo, fuori da ogni protocollo e da ogni preparazione, può certo confermare la prontezza di riflessi dei vecchi burocrati del Foreign Office, ma lascia spazio a idee più articolate. Nessuno in Europa poteva permettersi il caos sulla sponda nord del Mediterraneo, nemmeno gli inglesi, che con l’Egitto hanno un rapporto secolare. Tenere Mubarak a lungo in quel posto avrebbe portato la situazione a un punto di non ritorno; fargli succedere un figlio sarebbe stato anche peggio.
Solo la Libia sembra essere sfuggita allo schema piazza – transizione indolore – continuità senza eredi designati. Gheddafi sembra intenzionato non tanto alla risposta politica alla piazza in stile gollista, quanto a una repressione di stile sovietico, modello Budapest o Praga. Però quelli erano altri tempi, Yalta vigeva e l’Armata Rossa era qualcosa di ben più serio dei miliziani del colonnello libico.
La Libia è l’incognita e l’insipienza della politica italiana nell’ultimo mezzo secolo rende solo più elevato il pericolo.
Per il resto, due ultime note. La prima riguarda la nullità della politica estera europea, messa in un angolo dallo schiaffo dato alla sua stessa connazionale,Catherine Ashton, ministro degli esteri comunitario, di fatto umiliata dal viaggio del conservatore Cameron, forse perché lei è di sinistra, ma anche perché non sembra capace di esprimere una presenza europea che si faccia sentire. Certo, è andata a Tunisi, a parlare di rifugiati, ma sembrava un funzionario della Croce rossa o dell’Onu, non un leader politico.
Ora tutto quel che l’Europa sa elaborare è un piano di sanzioni contro la Libia. Ormai la storia ha insegnato che le sanzioni sono un provvedimento stupido quanto inutile, il cui prezzo è pagato soprattutto dai popoli, che non hanno certo la forza di ribellarsi ma solo il diritto di soffrire un po’ di più, se soffrono. Intanto i dittatori se la sono risi tutti, da Mussolini a Saddam. Sono cresciuto in una famiglia antifascista a Genova, nei primi anni dopo la guerra, quando la memoria delle sanzioni per l’invasione dell’Etiopia era ancora viva: ma non erano ricordate come sofferenza, solo come un gesto inutile da parte di inglesi e americani. Un vicino di casa, ebreo scampato ai rastrellamenti, ricordava la scemenza delle sanzioni: “Non mancava niente, a Mussolini non fecero un baffo”.
La seconda osservazione è ancora più amara e parte dall’isolamento dell’Italia nel sistema europeo, dimostrato dagli schiaffi in faccia che si è preso il ministro dell’Interno Roberto Maroni, quando ha voluto, magari strumentalmente ma con qualche ragione, porre il problema degli esodi dalla Libia verso le nostre coste. La causa di una cronica assenza del nostro governo, che non può certo essere imputata a Berlusconi.
Anzi, qui assistiamo ad uno dei tanti paradossi di Berlusconi, che da imprenditore è stato capace, prima di tutti e meglio di tutti, di capire l’importanza dell’alta burocrazia europea per la definizione di temi per lui vitali come gli affollamenti orari e giornalieri della pubblicità. Da capo di governo è stato solo capace di offendere gli altri capi di governo con lazzi e gaffes, inventandosi per giunta una sua personale politica estera, che sarebbe meritevole di maggiore attenzione, ammesso che ne siano capaci, da parte della sinistra politica e giornalistica, in alternativa a puttane e bunga bunga come motivazioni per mandare a casa, non per via politica ma giudiziaria, Berlusconi.
In ogni caso Berlusconi è solo la panna sul dolce di una incapacità di rapporti internazionali dell’Italia. Senza volere sempre rimestare nel passato e ricordare i nefasti risultati conseguiti da Vittorio Emanuele Orlando a Versailles nel 1919, sono decenni, da quando è esistita la prima forma della comunità europea, che gli italiani sono rimproverati per la loro latitanza; ora tutto è più grave a causa di una politica estera inconsistente e contraddittoria, di cui il ministro degli Esteri è il principale responsabile, in quanto obbediente e silenzioso esecutore di quella politica di Berlusconi che ogni volta che uno ci pensa, gli viene sempre da pensare il peggio.