Si è concluso il processo di cambiamento dei capi della Rai iniziato con il rinnovo dei vertici societari e continuato con quello delle varie direzioni di testata e di rete . Molti sono stati coloro che hanno seguito le varie fasi, come se ne dipendesse il futuro della democrazia italiana, anche se, come altri più competenti di me in materia hanno accortamente sostenuto, non sono i telegiornali a formare l’opinione pubblica. Al massimo possono creare dal nulla il mito di qualche personaggio (vedi Brunetta) che non avrebbe altro motivo di essere noto al mondo se non sparasse sciocchezze che lo scarso spirito critico dei giornalisti italiani, travestito dal dovere di cronaca, trasforma in versetti della Bibbia.
La storia ha già dimostrato la verità del relativamente modesto peso dei giornali, tele e no, sulla formazione dell’opinione pubblica: c’era una volta quando c’era un solo Tg, lo dirigeva un democristiano di ferro, ma il Pci continuava ad aumentare i propri voti.
Pesano molto di più, nella formazione dell’opinione pubblica gli spettacoli di intrattenimento, di varietà, di educazione: Striscia la notizia conta di più, nella coscienza popolare, del Tg 1; dà più notizie Report del Tg 4. Pesa pertanto molto di più la direzione di Rai Fiction, di cui pochi invece si sono interessati, anche se da lì passa la vera cultura popolare italiana, oltre che i grandi soldi spendibili senza il fiato sul collo dei sindacati.
C’è una cosa che chiunque può verificare cliccando su queste parole: il ciclo delle nomine Rai si è concluso secondo un canovaccio tracciato il 17 aprile in una riunione, tra tutti quelli che nella maggioranza avevano da dire in materia, svoltasi a casa di Silvio Berlusconi, nel corso della quale furono definiti i nuovi assetti: non tutto si è avverato, i nomi, con le dovute eccezioni, coincidono i buona misura.
Forse nessuno l’ha detto al presidente della Rai, che certamente in assoluta buona fede ha detto, dopo la sostituzione di Ruffini con Di Bella alla direzione della terza rete tv, che tutto si è svolto secondo la logica aziendale. Poco tempo fa aveva anche rivendicato l’assoluta autonomia delle scelte: ma forse non gli passano i giornali o non legge la rassegna stampa. Comunque la velina era stata già scritta, solo i rituali della politica, complicati dal cambio al vertice del Partito Democratico hanno ritardato le cose.
Tutto si è svolto secondo regole scritte da tempo, che la maggioranza di destra ha rispettato, come le aveva rispettate quella di sinistra che l’ha preceduta. Le regole, consolidate negli anni, sono perfettamente democratiche: alla maggioranza toccano i due terzi, all’opposizione un terzo. Due è destra, tre è sinistra, cambia bandiera uno. Ci sono delle eccezioni, come Vespa all’uno e Santoro al due, ma l’impalcatura non cambia.
Secondo questa regola, che garantisce il pluralismo a me cittadino più di qualsiasi editore privato (come dimostra il poco spazio lasciato alle voci e alle opinioni dell’opposizione dagli altri mezzi di comunicazione e informazione di proprietà di privati) Paolo Ruffini venne nominato direttore della radio e poi della terza rete tv: non perché venne strappato alla Bbc o alla Fox, ma perché, nell’ambito delle assegnazioni di posti allo schieramento di sinistra in quel momento là, agli ex democristiani toccava quel posto. Per mettere Ruffini a Rai tre, ricordiamolo, venne mandato via senza tante cerimonie il vero padre della terza rete Rai di oggi, Angelo Guglielmi, che da buon comunista accettò la volontà del partito senza discutere e venne recuperato da Cofferati come assessore alla cultura al Comune di Bologna.
Oggi Ruffini viene rimosso, mantiene qualifica e stipendio e al suo posto mettono Antonio Di Bella, a sua volta rimosso da direttore del Tg 3 per metterci Bianca Berlinguer. Dicono, ma Ruffini ha fatto bene, perché cambiarlo? Il ragionamento funzionerebbe fino a un certo punto anche in una logica privatistica, perché anche in una azienda privata puoi decidere che sostituisci uno che ha fatto bene nella speranza di metterci uno che farà meglio e perché anche in una azienda privata ci sono epurazioni che Stalin invidierebbe in nome delle cordate di potere: niente di personale, ma devo obliterare tutti gli uomini del predecessore.
Ma nel caso della Rai, la logica non è quella di un’azienda privata, ma di un servizio pubblico, che garantisca rappresentazione via etere alle componenti sociali, economiche e culturali che formano la società in un dato momento e sono alla base dei partiti politici che rappresentano i cittadini in Parlamento.
Ci sarebbe stato da gridare allo scandalo se a direttore del Tg 3 e della terza rete tv la Rai avesse nominato qualcuno di provenienza Pdl: invece la designazione è toccata alla sinistra, precisamente alla segreteria del principale partito che oggi rappresenta la sinistra e più o meno il centro sinistra in Italia. Se a Ruffini è andata bene quando prese il posto di Guglielmi, perché non deve andargli bene ora? Il problema è tutto interno al Pd, la cui componente non di derivazione comunista scopre a sue spese che Bersani non sarà stato capace di mantenere gli impegni di spezzare le reni agli ordini professionali e di lasciare i tassisti sul bagnasciuga, ma le logiche di potere di antica tradizione che portano allo sterminio del compagno di cordata prima del nemico quelle Bersani le conosce bene.
Commuove poi il presidente della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, Sergio Zavoli, del quale ancora ricordo dall’infanzia il mito delle cronache del Giro d’Italia, ma non ricordo bene quali competenze lo abbiano fatto diventare, ad esempio, presidente della Rai stessa qualche lustro fa. O forse fu merito della lottizzazione tra i partiti di governo dell’epoca?
Una piccola nota un po’ classista: nessuno dei protagonisti di sinistra di questa vicenda gode da parte mia di particolare simpatia o solidarietà. Mi blocca un pregiudizio, del genere che ancora oggi induce Mario Cuomo, ex governatore dello Stato di New York e figlio di immigrati italiani, a parlare di lotta di classe quando ricorda che i suoi compagni di scuola anglosassoni, all’ora di cena, lo mandavano sempre via e mai una volta l’hanno mai invitato, perché era di umili origini.
I tre coinvolti nel balletto saranno tutti bravissimi professionisti, ma non possiamo dimenticare che la Berlinguer è figlia del defunto segretario del Pci del sorpasso, Di Bella è figlio di uno dei più grandi e sfortunati direttori del Corriere della Sera, Paolo Ruffini è figlio di un ministro dell’era Dc e nipote di un cardinale. Possiamo essere solidali con loro per i complessi di inferiorità che possono venire ai figli di tanti padri. Ma ci sono tanti bravi professionisti in giro, senza cognomi illustri e con i quali la vita è stata meno generosa, cui onestamente mi sento moralmente molto più indebitato.